È stato un mese particolare quello passato: nell’arco di poche settimane nei teatri di Milano si sono avvicendati ben sei diversi spettacoli di Giovanni Testori. Un elenco rende l’idea: Macbetto con Roberto Magnani, Cleopatràs con Marta Ossoli, Conversazione con la morte con Gaetano Callegaro, La monaca di Monza con un’indimenticabile Federica Fracassi e la regia di Valter Malosti, I Promessi sposi alla prova con regia di Andrée Shammah e una grande Laura Marinoni in scena, e infine Edipus con Roberto Trifirò. Questi ultimi due sono ancora in scena e meritano certamente di essere visti. E a giugno torna, questa volta a Napoli, uno dei suoi testi più celebri, In Exitu, con uno dei migliori talenti del nuovo teatro italiano, Roberto Latini. Per essere completi va ricordata anche la lettura di Conversazione con la morte fatta da Toni Servillo lo scorso dicembre e quella delle poesie d’amore da parte di Lino Guanciale.
Perché tanto Testori? Perché un autore così anomalo e così poco incasellabile in una famiglia culturale continua a suscitare tanto interesse? Portare in scena un suo spettacolo non è impegno da poco, perché la sua lingua, i contenuti dei suoi testi obbligano sempre a delle vere prove di forza attori e registi. Quello di Testori è l’antitesi del teatro borghese. È un teatro che suona sempre come una sfida, innanzitutto nei confronti di chi lo porta in scena ed è chiamato a vere performance. Ma lo è anche nei confronti del pubblico, al quale non è mai lasciato nessuno spazio per provare ad essere indifferente: ogni volta Testori mette davanti ad un prendere o lasciare.
Perché tanto Testori, dunque? Personalmente sono parte in causa, in quanto guido l’Associazione che prende il suo nome e che da un paio d’anni è diventata anche detentrice dei diritti in accordo con l’erede. E personalmente son il primo ad essere sorpreso dall’incalzare di tanti soggetti che chiedono di avventurarsi nella messa in scena di qualche suo testo. Una risposta la trovo proprio nella loro determinazione e nel loro coraggio: il teatro di Testori per un attore e per un regista non è semplicemente un qualcosa che concerne la sfera professionale, ma è qualcosa che si configura di più come un’esperienza di vita. Come un’esperienza in cui l’attore non mette in campo solo la sua bravura ma gioca anche molto di se stesso. La parola di Testori è una parola che “riempie” il corpo di chi la interpreta. Non è parola da interpretare, ma parola che chiede di farsi carne nella voce e nella presenza di chi la porta in scena.
Proprio perché non fa sconti e chiede coraggio, l’impressione è che il suo teatro sia un’esperienza di giovinezza: nel senso che chiede la spavalderia e la sfrontatezza di chi non fa calcoli ma cerca qualcosa di grande per la propria vita, intesa anche come vita professionale. Ed è esperienza di giovinezza anche perché non è mai uguale a se stesso, in quanto lascia a chi lo porta in scena tutto lo spazio per vivere una propria personale avventura. La libertà che l’autore si è preso nello scrivere questi suoi testi imprevedibili sotto ogni profilo, appassionati e insieme irriverenti è una libertà che contagia chi li prende in mano e li porta in scena.
La risposta al perché tanto Testori oggi, anno 2019, sta forse proprio in questa chiamata ad un’esperienza di libertà, fuori dagli schemi, fuori dai formalismi, fuori dagli obblighi di un’obbedienza. È libertà come rischio; una libertà che si fa voce e ogni volta prende corpo sulla scena.