Ci sono sostanzialmente tre modi di considerare guerre e conflitti tra nazioni. I primi due, prevalenti, sono dominati da astrazioni ideologiche, come quelle riguardanti credi religiosi, vedi il fondamentalismo islamico, o credi politici, come nel caso delle democrazie, o meglio dei sistemi capitalistici che i Paesi occidentali cercano di imporre in varie parti del mondo.
L’idea di dover esportare la democrazia, anche in modo violento, è figlia della visione politica soprattutto americana, ma a cui oggi purtroppo si ispirano molte nazioni europee. Cercando di imporsi, ignora o calpesta le realtà locali, culturali e religiose esistenti. Prima con Saddam e adesso con Assad si è pensato di asportare il “male” dal corpo dei vinti, facendo così pagare prezzi altissimi al popolo. In particolare oggi, l’uso delle sanzioni economiche contro Assad e la guerra fomentata in Siria, dimostrano tutta la pochezza della politica occidentale. Chi paga il prezzo delle sanzioni è la popolazione affamata, privata di beni elementari come acqua e luce, che non può usufruire delle rimesse degli emigranti siriani dall’estero e ha come sola alternativa la fuga disperata. Di qui, l’esodo di milioni di siriani verso altri paesi.
C’è un terzo modo di affrontare la questione. In Europa e nel Mediterraneo la storia ci insegna che si può convivere senza cercare di imporre la propria visione del mondo, ma cercando di creare un contesto dove le varie comunità vengano rispettate attraverso accettabili compromessi per il bene comune. E’ successo nella Sicilia conquistata dai musulmani dove l’intera popolazione prosperò e successe alle comunità islamiche di prosperare dopo la conquista dei normanni, è successo ad Alessandria d’Egitto, continua a esistere seppur con tante difficoltà in Libano. E’ successo anche in Siria, dove le più diverse realtà religiose ed etniche, un mosaico di 23 diverse comunità, hanno vissuto in armonia per secoli imparando ad accettare il valore della differenza. Incredibilmente succede ancora in una città martire come Aleppo dove accadono miracoli di convivenza di cui nessuno parla, come la mensa gestita dal Jesuit Refugee Service, dove ogni giorno si preparano 12mila pasti grazie ai contributi economici di donatori cristiani e musulmani e al lavoro di volontari cristiani e musulmani.
Come si esce allora da questa logica di astrazione perversa? Un punto cruciale da affrontare per il nostro futuro è quello della libertà religiosa, a cui è dedicato interamente il nuovo numero della rivista Atlantide. Cosa significa, concretamente?
Lo ha spiegato Georges Abou Khazen vicario apostolico latino di Aleppo, in occasione di una recente presentazione di Atlantide: “I musulmani che ci incontrano ad Aleppo vedono una diversità umana e ne sono colpiti: “Voi siete diversi”.
La gente è stanca della guerra, chiede che i negoziati di pace in corso a Ginevra vadano avanti e che i potenti si accorgano di questa vita in atto e la sostengano”. Questo significa sostegno alla libertà religiosa, come ha spiegato monsignor Silvano Tomasi, per molti anni osservatore permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite a Ginevra, perché “difenderla e promuoverla non è tutelare una minoranza, ma garantire un bene prezioso per l’intera società”.
La politica estera dei Paesi occidentali si è dimostrata incapace di subordinare i suoi interventi alla difesa della vita reale, pacifica e pluralista, che può perdurare anche in condizioni difficili. Sostenere fatti concreti di vita difendendo la vita dei singoli, delle comunità che sono sul territorio, è quanto si è mancato di fare.
I cento milioni di cristiani perseguitati nel mondo, come tutte le altre etnie e minoranze religiose, ci chiedono un cambiamento, in nome di questo concetto di libertà religiosa che significa difesa di popolazioni esistenti, che predilige il confronto, la discussione, il dialogo, il rispetto per il prossimo a guerre dichiarate o al sostegno surrettizio a gruppi armati. Ce lo ha insegnato la Chiesa nei rapporti che ha avuto per decenni con regimi dittatoriali come la Russia sovietica, la Cina o la Corea del Nord, cercando la strada del compromesso e del lungo percorso diplomatico per difendere le persone da persecuzioni e massacri. Papa Francesco è oggi l’unica personalità mondiale a invocare una convergenza mondiale per il bene comune capace di tutelare le diversità. La sua concezione è rivoluzionaria, per questo è così osteggiata da molte parti. Nonostante il punto a cui siamo arrivati e in vista di un futuro di pace che tutti aspettiamo c’è ancora la possibilità di agire, se seguiamo questa strada. E se le cancellerie degli Stati la fanno propria.