Domenica prossima sarà la festa di Pentecoste. Tutti sappiamo che — dopo cinquanta giorni (questo significa la parola pentecoste) dalla Pasqua — si celebra la discesa dello Spirito Santo, il cui frutto immediato ed eclatante è che gli apostoli, prima intimiditi e incerti, di schianto si trasformano in decisi e sicuri testimoni della vita, della morte e della resurrezione di Cristo. Manzoni, rivolgendosi alla Chiesa, descrive gli effetti dell’evento della Pentecoste — il “sacro dì / quando su te lo Spirto / rinnovator discese” – con l’immagine di un corpo che si ridesta dall’intorpidimento e si lancia baldanzoso nell’avventura della storia proprio perché lo Spirito “l’inconsumata fiaccola / nella tua destra accese” e quindi “segnal dei popoli / ti collocò sul monte, / e nei tuoi labbri il fonte / della parola aprì”.
Lo Spirito Santo, dunque, è l’energia che permette all’annuncio cristiano di attraversare i secoli mantenendosi fedele al suo inizio: l’incarnazione di Cristo. Ci sono stati anni in cui quella che nel catechismo avevamo imparato a chiamare “la terza Persona della Santissima Trinità” era percepita come un’entità remora dagli interessi umani, un’evanescenza poco comprensibile e stucchevolmente raffigurata come una strana colomba situata fra il trono del Padre e la croce del Figlio o sulla scena dell’annunciazione a Maria. Comunque, una strana astrazione, inutilizzabile per gli obiettivi quotidiani dei rapporti comunitari, dell’impegno civile, delle battaglie culturali, della costruttività operativa. Quanto ai “popoli”, per i quali la Chiesa sarebbe dovuta essere “segnal” come una città arroccata sopra un colle, parlare di “spirito” (senza neppure l’aggettivo, realmente qualificativo in questo caso) era come parlare di favole e fantasmi; trionfava allora un granitico materialismo.
Poi le cose sono cambiate e in quegli stessi popoli, delusi nelle speranze rivoluzionarie, si cominciò a prendere in considerazione una certa qual dimensione “spirituale” dell’esistenza, vaga ma accettata. Anche tra i credenti ci si accorse dell’importanza dello Spirito Santo; in molti casi con serietà e dedizione, in altri con una certa genericità o ricerca di sensazionalismo che rischiano di spappolare il contenuto oggettivo della Chiesa. Il pericolo dello “spiritualismo” — la separazione dualistica tra le questioni carnali di una vita umana e un presunto suo aspetto puramente interiore, tra la vita e la fede insomma — è sempre incombente.
Manzoni, nel suo inno La Pentecoste, non cade nel tranello spiritualista; tanto che nella lunga invocazione che occupa la parte finale della poesia passa in rassegna la concretissima geografia del globo (dalle Ande al Libano, dall’Irlanda ad Haiti), l’altrettanto specifica varietà degli sentimenti umani (la fedeltà, il dubbio, l’ira) e, nelle due ultime mirabili strofe, ripercorre tutto l’arco della vita reale dell’uomo: l'”ineffabil riso” dei bambini, la timidezza delle adolescenti, il “confidente ingegno” del “baldi giovani”, le “gioie ascose” delle spose, la canizie veneranda, per concludersi nella domanda che lo Spirito brilli “nel guardo errante / di chi sperando muor”. Ma già prima il poeta aveva evidenziato il sintomo sicuro della presenza fattiva dello Spirito (non spiritualista) nella vita dei credenti: una “pace, che il mondo irride, / ma che rapir non può”.