Torno ancora una volta sulla visita milanese di papa Francesco. D’altra parte, si sa che un avvenimento che ci accade supera la superficialità dell’avventura (seppure emotivamente coinvolgente) e raggiunge il livello dell’esperienza proprio perché, valutando quell’avvenimento, scopriamo nuovi fasci di luce che aiutano a vedere meglio noi stessi e la vita che viviamo.
Stavamo, dunque, discutendo tra amici sul classico “com’è andata sabato scorso dal Papa?”. E via coi racconti sugli aspetti più esteriori: quanta gente! Fortuna che c’è stato un tempo così sereno; i bambini non si sono annoiati, anzi; sì, però il rientro a casa col treno è stato un disastro; eccetera. Dopo il rodaggio, cominciano ad arrivare osservazioni e racconti che scendono più in profondità. Ne riporto solo due, quelli che mi hanno lasciato il segno e mi sembrano carichi di possibile fruttificazione anche per il tempo che verrà.
Uno ha ricordato l’incontro di Francesco nel disagiato quartiere popolare di via Salomone e il pranzo coi carcerati di San Vittore. “Troppo spiccia e superficiale l’interpretazione che legge queste scelte del pontefice esclusivamente in chiave sociologica, come uno scontato appello buonista. Io ho pensato che ci doveva essere sotto una indicazione di metodo: se il vicario di Cristo va in posti così malfamati, in contesti così apparentemente senza speranza, vuol dirci che non c’è nessuno spazio umano – perfino quello decaduto in sub-umano – in cui la proposta del cristianesimo non possa arrivare. È come se Francesco mi dicesse: se anche tu finissi in galera o cadessi nella miseria più nera, io ti verrei a trovare, perché tu sei molto più grande delle tue disgraziate condizioni economiche e l’errore che ti ha abbrutito non ha spento il lucignolo fumigante del tuo cuore d’uomo”.
“La questione ha un’ulteriore sfaccettatura”, aggiunge un altro. “Questo Papa parla sempre di umanità ferita, di periferie, di luoghi decentrati che bisogna aver il coraggio di guardare, senza far finta che non ci siano. Non c’è dubbio che pensa a concreti pezzi di società, alle zone degradate delle metropoli, ai derelitti che ci sono anche qui, nel nostro quartiere, e di fronte ai quali spesso giro la faccia dall’altra parte. Ma pensandoci meglio mi sono accorto che il luogo da cui più sfugge il mio sguardo è il disagio doloroso dei miei limiti, sono le ferite provocate dalla mia superficialità, cattiveria, egoismo. Questa sì che è una periferia in cui non ho nessuna voglia di entrare. Solo la proposta della compagnia cristiana mi consente di addentrarmi con una certa pace anche in questi luoghi bui, portandovi la luce ancora fioca di una pacificante fede, che però sempre deve crescere”.
Tornato a casa sono andato a rileggere una frase di Benedetto XVI che, detta in occasione di esequie, invita ad avere il coraggio di addentarci perfino nel buio più buio che c’è, quello della morte: “Sebbene a volte possa sembrare che in quel momento Lui [Dio] sia assente, che si dimentichi di noi, in realtà noi siamo sempre presenti a Lui, siamo nel suo cuore. Ovunque possiamo cadere, cadiamo nelle sue mani. Proprio là, dove nessuno può accompagnarci, ci aspetta Dio: la nostra Vita”.