Andare a votare ascoltando Gaber

Dopo 5 anni si torna a votare per le elezioni politiche. Potrebbe valer la pena andare al seggio dopo avere ascoltato due canzoni di Gaber. Per costruire meglio la "piazza". MAURIZIO VITALI

Consigli per gli ascolti (specie quelli in auto, negli spostamenti casa-lavoro): mettere su un cd di Gaber con due vecchie canzoni di grande attualità. Una si intitola Le elezioni, l’altra, forse più nota, La Libertà. Aiutano a chiudere i conti con la prima Repubblica e a farli, i conti, con l’oggi politico che è un aspetto del cambiamento d’epoca. La loro ironia acuta e divertente è adatta a combattere contemporaneamente gli stress da coda nel traffico e quelli da spaesamento dell’elettore.

Le elezioni. Strade silenziose e linde, gente compunta che sembra anche più buona del solito, splendida mattina di sole (generalmente): chissà perché non piove mai quando ci sono le elezioni. Perfino nei carabinieri c’è un’aria rassicurante. Un senso d’ordine e di pulizia: democrazia. Mi porgono due schede e una matita marroncina perfettamente temperata. Vado emozionato in cabina, compreso dell’alto dovere, e metto un segno sul mio segno. Come son giuste le elezioni. Dovere compiuto, è tutto finito. Resta quella matita marroncina… quasi quasi me la porto via: democrazia.

Un segno sul mio segno: sapevo già tutto prima. Voto di appartenenza: a una delle grandi chiese-partito, quella comunista di Mosca, e quella democristiana del Vaticano, ascendente Usa. O Usa ascendente Vaticano, a piacere. Con varianti, certo: socialista perché in viaggio da Mosca a Washington; repubblicana o liberale perché il marito della povera prozia Elvira era massone. Ma la scelta ricalcava un mondo fisso diviso in due. E gli orizzonti ideali (o ideologici) apparivano in buona sostanza sovrapponibili a questa o quella grande forza politica di massa. Valori cristiani e di libertà: Dc e dintorni; valori comunisti e di giustizia classista: Pci e dintorni. Ex fasci, fuori dal poema epico di don Camillo e Peppone, che è l’Iliade, l’Odissea e l’Eneide della nostra Italia.

Ecco, metto un segno sul mio segno, senza patemi e senza drammi. Senza interrogarmi troppo: non ce n’è bisogno, perché i fondamentali sono chiari. Voto di appartenenza. Democrazia.

Però alla lunga, che noiosa scontatezza. Democrazia bloccata, la chiamavano i politologi. E come tale corruttibile e incorreggibile, lamentarono i padroni del vapore (che della medesima si erano profittati senza pudore). Il crollo del Muro nell’89, ma già prima la laicizzazione dei partiti di massa perseguita dalle élites del potere, con l’idea di rompere la fissità del sistema, sradicare la politica dalle appartenenze, affermare un voto laico e mobile di opinione che consentisse senza traumi l’alternanza delle coalizioni al governo. Le Mani Pulite e la speranza di salvezza riposta nelle manette. La fine delle preferenze, della Dc e dei suoi alleati. L’introduzione forzata di un bipolarismo sempre più rissoso. Personalizzazione. Finta elezione diretta del capo del Governo. Disintermediazione, che vuol dire contenere il più possibile, se non annichilire, il peso dei corpi sociali intermedi. Tutti liberisti, anche D’Alema che stima Mediaset se putacaso gli tocca Palazzo Chigi. Eccetera eccetera. È cambiato un mondo, no? Era fede nel Nuovo-che-avanza. Ma salvezza non giunse.

E poi la crisi economica, e i suoi mille problemi e diecimila disillusioni. Le élites danno un altro colpo alla politica: è una Casta. Rottamiamo. Serve un uomo solo al comando. Tanti ci credono. Ma no, sbaglia anche lui. La politica è liquida come la società, l’elettorato vagola, i parlamentari cambiano casacca in corso d’opera. Gli schieramenti sono raccogliticci a destra e spappolaticci a sinistra. Per darci la salvezza non basta un Rottamatore, ci vorrebbe un Dio… ops, un Deus-ex-machina. Dal voto convinto di appartenenza, al voto di schieramento, al dilemma tra deus ex machina (“vediamo, se fa fuori gli altri, magari staremo meglio”) e astensione (“non capisco e non mi fido di nessuno”). Quasi quasi, nostalgia di Tribuna politica, e lacrimuccia per Jader Jacobelli e Ugo Zatterin. Ma no, dai, ti prego.

La libertà. Libertà è partecipazione. Partecipazione è il mettersi in azione di un soggetto per una motivazione che trova non fuori di sé, nella circostanza più o meno agevole e facilitante, ma dentro di sé: nelle profonde, magari appannate ma inestirpabili esigenze di bene e di giustizia, e nella propria esperienza di famiglia, lavoro, opere sociali, volontariato, educazione. Partecipare vuol dire frequentare e costruire la “piazza” indicata da papa Francesco “dove si impasta il bene comune”. Partecipare, finalmente, vuol dire non staccare la spina — appressandosi all’urna — dai criteri che vengono dal cuore e dall’esperienza che facciamo affrontando i bisogni. 

Non è un a-priori che ci fa fare un segno sul mio segno. Molto difficile, oggi, che il personale orizzonte ideale sia integralmente sovrapponibile a un simbolo o a una coalizione. Peraltro è anche abbastanza lampante a quale simbolo non sia affatto sovrapponibile, a meno di volerla mettere giù più complicata di quello che è. Nella vita reale, come nella scienza, vale il lavoro dell’approssimazione. Che non è pressapochismo, ma incessante tensione a correggere e migliorare.

Non dovrebbe valere anche in politica? Libertà non è il volo di un moscone, libertà è partecipazione.

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