Preghiera, digiuno e violenza quotidiana

Negli ultimi mesi non mancano notizie inquietanti dalla Russia. Ma nemmeno fatti che richiamano al senso profondo della Quaresima. GIOVANNA PARRAVICINI

Negli ultimi mesi da più parti della Russia, nelle periferie dell’impero come nei pressi di Mosca, vengono segnali inquietanti di violenze che trovano forme espressive diverse e di diversa gravità, ma lasciano intravvedere alla base un’aggressività “ideologica” che assurge a metodo di rapporto con il reale. È il caso, ad esempio, dei due adolescenti Lev e Aleksandr che poco più di un mese fa, il 15 gennaio, in una scuola di Perm’ (Russia orientale) hanno aggredito a coltellate un’insegnante e alcuni ragazzini di quarta elementare, nello stesso istituto in cui per un certo periodo avevano studiato anche loro.

Eppure, a detta di tutti, la Scuola N. 127 è uno degli istituti scolastici migliori della zona, e le testimonianze dei compagni di scuola li presentano come ragazzi normali – a qualcuno di loro Aleksandr aveva addirittura dato lezioni di fisica. Ma i due erano andati progressivamente estraniandosi dal lavoro scolastico e dalle relazioni con i compagni per entrare nel mondo virtuale, fino a concepire il sogno di emulare la strage compiuta negli Usa nel 1999 da due ragazzi nella Columbine High School. Lo si è capito poi, esaminando i loro profili sui social, i video e le frasi che postavano. “Erik e Dylan erano diventati i loro idoli – ha ammesso Anastasija, una compagna di scuola -. Forse volevano entrare nella storia anche loro, in questa maniera così assurda e sporca”.

Il bilancio è pesante, 15 feriti, di cui 12 ricoverati in ospedale e tre – fra cui l’insegnante – in gravi condizioni; e intanto la versione ufficiale dell’incidente continua a essere quella della “rissa fra scolari”. Sono storie di solitudine quotidiana, come siamo abituati a leggere sui giornali; sogni adolescenziali di realizzazione di sé che trovano esiti terribili, distorcenti; ma anche il tragico sintomo di una generazione di adulti incapaci di mettersi in causa, senza nulla da offrire ai giovani.

Un altro episodio: la settimana scorsa per festeggiare il Carnevale, in un parco pubblico in provincia di Kaluga, anziché al tradizionale pupazzo si è avuta la geniale trovata di dar fuoco alla gigantesca sagoma di una cattedrale gotica, alta circa 30 metri. Lo spettacolo è stato probabilmente ideato senza particolari intenzioni dissacratorie (come si è giustificato il responsabile dell’evento), ma anziché divertire i presenti è sembrato a molti un gesto macabro, sinistro, e ha sollevato numerose proteste.

Un responsabile del Patriarcato di Mosca per le relazioni tra Chiesa e società, Vachtang Kipšidze, ha dichiarato che un gesto di questo genere “non può recare nessun messaggio sensato”, al contrario, “solleva grossi interrogativi”. Come non pensare alla distruzione di chiese in fiamme in Medio Oriente, alle persecuzioni dei cristiani in atto nel mondo? Perfino l’operatore televisivo presente alla manifestazione, Maksim Galkin, ha postato su Instagram: “Nella nostra società negli ultimi tempi si difendono accanitamente i diritti dei credenti. Mi spiegate, allora, perché in una festa popolare e ortodossa come questa si dà fuoco a una grande cattedrale cattolica? È uno spettacolo che mi sgomenta”.

Ma anche nelle storie di violenza c’è spazio per un “io” che non rinunci alla propria umanità. È successo nell’attentato del 18 febbraio scorso all’uscita di una chiesa ortodossa in Daghestan, repubblica autonoma della Federazione Russa a maggioranza islamica, in cui sono state uccise 5 parrocchiane. L’attentato, rivendicato dall’Isis che nel 2015 ha creato proprio nel Dagestan la sua “provincia caucasica”, avrebbe potuto avere un esito ancor più tragico se una delle parrocchiane di Kizljar, Irina Mel’komova, uscendo tra i primi di chiesa, non si fosse accorta che sul sagrato c’era ad aspettarli un giovane con un’arma spianata, e non si fosse gettata su di lui gridando e colpendolo con la borsa. Irina ha pagato con la vita il suo gesto (è stata freddata con un colpo in pieno petto), ma il suo intervento, che per un attimo ha sconcertato l’attentatore, ha dato modo agli altri di rientrare in chiesa e di sprangare precipitosamente la porta, mettendo così in salvo la cinquantina di persone – in gran parte donne e bambini – che vi si trovavano.

E nel suo messaggio di cordoglio, l’arcivescovo ortodosso locale Varlaam ha sottolineato che “chiunque sia stato il mandante di questo efferato crimine, non riuscirà a distruggere la pace e l’armonia esistenti nella nostra repubblica plurinazionale e pluriconfessionale. Nonostante tutto, noi e i nostri fratelli che professano l’islam siamo stati, siamo e continueremo ad essere buoni vicini e figli di un Unico Padre”.

“Giocarsi la vita per Qualcuno, con la Q maiuscola. E quindi per gli altri”: così un missionario ha sinteticamente descritto la presenza della Chiesa in Sud Sudan e Congo, paesi per i quali papa Francesco invita domani i cristiani di tutto il mondo a pregare e digiunare. È la stessa dinamica vissuta da Irina sul sagrato della chiesa di San Giorgio a Kizljar, e proposta ai fedeli dall’arcivescovo Varlaam. Sono infinite le storie di violenze e sopraffazioni locali e internazionali dimenticate o censurate dai media mondiali, e a cui sembrerebbe ingenuo e velleitario pensare di poter opporsi; in questo inizio di Quaresima, invece, il Papa le rimette al centro dell’attenzione di tutti in una prospettiva evangelica – proprio come Gesù insegnava ai discepoli a scacciare i demoni, con il digiuno e la preghiera – indicando la via del dono di sé come l’autentico cammino pasquale.

È una visione estremamente realistica, che non nutre false illusioni, ma, soprattutto, non si lascia scoraggiare dall’apparente insormontabilità degli ostacoli, dalla spirale di ingiustizie e di violenze gratuite, insensate, a cui assistiamo ovunque nel mondo.

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