Liberalizziamo la scuola

In Italia c'è monopolio statale dell’istruzione non dal punto di vista giuridico, ma economico. RAFFAELE VIGNALI spiega quale potrebbe essere la strada da seguire

Il Presidente del consiglio dei Ministri, Mario Monti, ha annunciato le linee dei prossimi provvedimenti per la crescita dell’Italia. In particolare, oltre alle questioni legate alla riforma del mercato del lavoro, ha comunicato di voler intervenire sulle liberalizzazioni e sul capitale umano. Su questi temi non è dato conoscere nel merito quali provvedimenti specifici si intendano promuovere, ma certamente si tratta di obiettivi che, se perseguiti con decisione e coerenza possono costituire dei reali fattori di crescita dell’economia e di mobilità sociale ed economica.



In un passato più remoto abbiamo assistito non a liberalizzazioni, ma a privatizzazioni, che il più delle volte hanno portato ad un passaggio da un monopolio pubblico ad uno privato. Al massimo, si è passati ad oligopoli. Nel passato più recente abbiamo assistito a liberalizzazioni di settori marginali, come i barbieri e i taxisti. In entrambi questi casi, non si sono registrati benefici né per il mercato, né per i consumatori, che dovrebbero essere gli obiettivi reali delle liberalizzazioni; il cui test consiste nella nascita di nuove imprese.



Nel Decreto cosiddetto “Salva Italia” del dicembre scorso, il Governo Monti ha imposto come liberalizzazione quella degli orari e delle aperture domenicali e festive degli esercizi commerciali. In questo caso, non si tratta, a dispetto del nome, di un processo di liberalizzazione, quanto di una deregolamentazione che presenta problemi non di poco conto sia con riferimento al mercato, sia dal punto di vista sociale. Quanto al mercato, perché consentire a questi esercizi di decidere autonomamente orari e giornate di apertura favorisce indubbiamente la grande distribuzione organizzata, ma rischia di penalizzare fortemente – com’è ovvio – il piccolo commercio, fino alla possibilità non remota di assistere alla chiusura di diverse attività. Dal punto di vista sociale, oltre al problema dei dipendenti delle grandi strutture costretti a turni anomali, significa aprire a un modello di società nella quale il tempo libero è visto unicamente come tempo di consumo e non come tempo da dedicare a se stessi e alla famiglia. Va detto anche che la stessa Commissione Attività Produttive della Camera aveva espresso parere contrario a questo provvedimento, chiedendo che si prevedessero modelli alternativi, come ad esempio quello dei distretti del commercio promossi con successo dalla Regione Lombardia, ma il voto di fiducia sul maxiemendamento del governo ha impedito un dibattito e un voto specifico in Aula.



È dunque auspicabile che i prossimi interventi di liberalizzazione si attestino ad un livello decisamente superiore.  In particolare, occorre che si tratti di interventi che possano realmente incidere sulla crescita. Da questo punto di vista, bisognerebbe intervenire prioritariamente su quei settori strategici nei quali il monopolio statale impedisce una concorrenza virtuosa necessaria allo sviluppo economico e sociale. Il riferimento non può che andare a quel particolare settore che ha il compito di formare la risorsa dell’economia della conoscenza: l’istruzione. In Italia, vi è monopolio statale dell’istruzione non dal punto di vista giuridico, ma economico. Va anche detto che la Costituzione prevede che lo Stato garantisca il diritto all’istruzione, non la gestione delle scuole. Tony Blair creò un sistema fondato sulla libertà di scelta della scuola da parte delle famiglie (finanziamento alla domanda, non all’offerta), sull’autonomia delle scuole (trasformate da enti del Ministero in fondazioni di territorio, con la possibilità di scegliere i docenti abilitati), su un sistema di regole di funzionamento di questo particolare mercato (“Quasi Market”, come lo hanno definito gli economisti britannici) e su un sistema di valutazione effettivo per mettere i genitori in condizione di scegliere la scuola migliore per i loro figli.

Ne spiegò le finalità al Congresso del New Labour del 2003: “La lotta per un futuro di giustizia inizia con la nostra priorità numero uno: l’educazione. Ad ogni età, ad ogni livello, l’educazione è la miglior garanzia per un futuro di giustizia (…). Abbiamo bisogno di una base industriale più moderna, raddoppiando l’investimento nella ricerca scientifica, diventando i leader in Europa nelle bioscienze e nella tecnologia; le università producono alta tecnologia come mai prima d’ora – abbiamo bisogno non solo di idee britanniche, ma anche di prodotti, profitti britannici, occupazione britannica che siano competitivi a livello mondiale. E nuovi mestieri – alte competenze, alta tecnologia, esattamente il tipo di lavoro di cui abbiamo bisogno per il futuro”.

Sarebbe decisivo applicare questo stesso modello in Italia. L’applicazione di questo principio di sussidiarietà su un settore così decisivo per il futuro non potrebbe che creare una concorrenza regolata e virtuosa a beneficio dei giovani. Comporterebbe anche l’introduzione di un criterio di equità a favore della mobilità sociale, che è il segreto delle economie più dinamiche.

Al netto delle obiezioni ideologiche di stampo sindacal-statalista sempre persistenti (di cui abbiamo avuto prova di recente nella vicenda dei tirocini formativi per l’abilitazione all’insegnamento), che significano protezione di rendite di posizione, l’unica osservazione che può registrare un fondamento è quella relativa ai maggiori e non sostenibili oneri per le finanze pubbliche. Va registrato che il livello della spesa pro-capite per l’istruzione primaria e secondaria in Italia è primissimi posti tra i Paesi dell’OCSE. Questo significa che spendiamo molto e, se guardiamo alle risultanze dell’indagine OCSE-PISA, decisamente male. La questione economica può essere superata stabilendo una quota capitaria per studente e procedendo per livelli successivi, ad esempio indicando una road map che fissi scadenze differenziate per i diversi ordini e gradi dell’istruzione.

Se il Governo Monti vuole intervenire seriamente sui fronti annunciati, l’apertura dei mercati e l’incremento del capitale umano, non può ignorare prioritariamente la scuola, che tra l’altro è il settore nel quale queste due politiche si possono incrociare a beneficio delle giovani generazioni e ritardarne la liberalizzazione significa condannare ancora il Paese a rimanere indietro rispetto all’Europa e alle economie emergenti. Blair concludeva l’intervento richiamato sopra con queste parole: “Nell’economia del ventunesimo secolo la conoscenza, il capitale umano è il futuro, e giustizia vuole che esso sia aperto a tutti”. Se queste parole sono vere (e sono vere), la liberalizzazione della formazione del capitale umano è di gran lunga più decisiva di quella dei servizi pubblici locali e delle professioni.

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