Esiste un’analogia tra la crisi del sistema finanziario statunitense, e quindi mondiale, e le turbolenze che ormai da oltre un anno stiamo vivendo nel settore dell’energia? Soprattutto per l’Italia, che cosa significa?
Se leggessimo l’editoriale di ieri e lo trasponessimo in chiave energetica, non sbaglieremmo affatto. Il mercato non è la soluzione definitiva di ogni problema, anche se porta indubbi vantaggi. Prendiamo il settore elettrico. La sua liberalizzazione, il mercato elettrico e la sua Borsa alla fine non sono bastati a generare una riduzione del prezzo dell’elettricità italiana a valori europei, né per i cittadini né per le aziende. E non è azzardato prevedere che anche la prossima apertura della Borsa del Gas non riuscirà ad ottenere effetti taumaturgici per le tasche degli italiani. Certamente la competitività porta a razionalizzazioni, ottimizzazioni e riduzione di sprechi. Ma oltre certi livelli non si va, non si può andare.
Non basta, infatti, correggere le storture del mercato, quali il meccanismo del Cip6 o il sistema dei prezzi marginali, che consente a tutti di vendere l’energia al prezzo più alto tra quelli selezionati. Passare al sistema del prezzo offerto, tipico dei contesti dove si ricerca la massima competizione, come suggerito ieri dal vicepresidente di Confindustria Costato, sarebbe certamente un miglioramento. Ma molto verosimilmente non basterà.
Servono scelte che il mercato da solo non può o non sa fare. O non può fare da solo. Per limiti intrinseci, inclusi quelli delle persone. Ad esempio, tutti gli imprenditori del settore elettrico si sono buttati nei decenni passati sul gas, per il basso costo del combustibile e per il maggior rendimento degli impianti. Giustamente, se ragioniamo solo in termini di mercato. Ma chi pensava alla dipendenza energetica, ai costi per imprese e famiglie, alla sicurezza degli approvvigionamenti? Serviva che qualcuno guardasse con una prospettiva di medio-lungo termine, mettendo in conto tutti gli aspetti del problema. Ma le azioni impegnative e i tempi lunghi che spesso ne conseguono, non sono compatibili con la visione short range spesso comune a mercato e politica.
È un “ovvioma”, ma perché un mercato sia veramente aperto e concorrenziale, occorre più di un prodotto e più fornitori. Oltre alle centrali turbogas, quindi, centrali a carbone e nucleari, come nel resto del mondo. E servono linee elettriche attraverso i confini, per importare elettricità prodotta da altri con fonti diverse e a prezzi più bassi.
Sviluppo delle reti e infrastrutture, carbone, nucleare: sono tutte azioni che una certa cultura pseudo-ambientale, insieme a scelte di opportunismo politico, hanno duramente contrastato nei decenni scorsi. Finalmente molti, guardandosi attorno nel mondo e guardando all’Italia, si sono accorti di quello scarso realismo.
Oggi sembra aprirsi la possibilità di un cambio di rotta per il paese. Il rigassificatore di Rovigo di recente inaugurazione è un primo segnale tangibile. Anche se lo si è fatto costruire agli spagnoli per poi trasportarlo via mare sino in Adriatico. E non perché in Italia non ci fossero competenze e capacità tecnologico-industriali per realizzarlo. In questi giorni poi è in discussione in Parlamento il ddl 1441 su sviluppo ed energia. In particolare, in esso sono contenuti i primi articoli sul nucleare. Recuperare questa opzione energetica è allo stesso tempo un’opportunità di sviluppo e una sfida.
Sviluppo perché si tratta di un’industria ad alto contenuto tecnologico ed alta qualità, e la gran parte degli investimenti sono in fase di costruzione e non di approvvigionamento del combustibile dall’estero. Gordon Brown ha benedetto di recente un consorzio industriale UK-USA per la costruzione di nuovi reattori perché “il 70% delle attività e dei relativi finanziamenti legati alla realizzazione di queste centrali rimarrà nel Regno Unito”.
Sfida perché il sistema che ruota attorno al nucleare è complesso, dal punto di vista industriale, finanziario, normativo e autorizzativo. Soprattutto, richiede tempi lunghi (una centrale nucleare vive 60 anni, si costruisce in 5-7 e si smantella dopo 20) e un alto livello di accettabilità sociale. Servono allora una seria rivisitazione normativa e organizzativa e un convinto approccio bipartisan, che diano stabilità alla scelta. In quest’ottica, lo slittamento di sei mesi –a giugno 2009– dei tempi per attuare la delega al governo per definire criteri e modalità del nucleare, paventato negli emendamenti al ddl 1441, non è affatto un passo falso ma è indice della complessità della materia e della serietà che essa richiede nell’affrontarla. Scelte affrettate e non pienamente ponderate, ad esempio sull’Agenzia per la Sicurezza Nucleare, la sua collocazione, struttura e operatività, apparirebbero un’accelerazione nell’immediato ma potrebbero rivelarsi un tragico intoppo nel futuro.
Anche in questo caso realismo e nuova razionalità sono indispensabili. Per gli inglesi, in rampa di lancio sulla ripresa del nucleare a casa loro, questo si traduce nell’impegno dello Stato a predisporre “the right framework, for private sector investment, in the public interest”.
Uno Stato che sia al servizio dei cittadini ha il compito di organizzare e tenere in ordine il campo di gioco (il mercato), mettendo chi vuol giocare (gli imprenditori e le aziende) nelle condizioni più adeguate a svolgere la propria partita, a vantaggio del pubblico. Che paga pur sempre il biglietto. Ricordando sempre, però, che nessuna legge potrà mai garantire o sostituirsi né alla perizia del giardiniere né all’estro dei giocatori. La nostalgia per il bel gioco (per il bene comune) è una malattia che devi avere, e per fortuna alcuni l’hanno. L’unica speranza è il contagio.