Il 16 marzo prossimo cadranno i 25 anni dalla morte di Testori. Penso che non si potesse immaginare modo più “testoriano” di stare sull’anniversario di questo nuovo libro scritto da Luca Doninelli. Una gratitudine senza debiti. Giovanni Testori, un maestro (La nave di Teseo, 2018): sin dal titolo si annuncia come un libro sanamente “irregolare”, nient’affatto celebrativo. Lo schema normalmente accettato, stabilisce che nel rapporto con un maestro ci si senta certamente grati, ma anche debitori. Nella relazione di Doninelli con Testori le cose non hanno rispettato lo schema. E proprio nella ricostruzione e documentazione di quest’anomalia consiste il fascino e anche la sorpresa del libro. La domanda da cui Doninelli parte è semplice e formulata con empito quasi manzoniano: “che cos’è mai un maestro?”. La risposta che via via incontriamo tra le pagine assomiglia più a un continuo sommovimento. Non c’è traccia dell’idea di un discepolato, nel quale chi segue si trova con un binario già sapientemente tracciato davanti.
Ad esser precisi, nel caso di Doninelli alla domanda non segue affatto una risposta, perché dopo la domanda ci troviamo davanti sempre ad un campo aperto, che spalanca ipotesi e possibilità del tutto inaspettate. “Il maestro è invece una casualità”, scrive Doninelli. “Una casualità che ci può toccare nel cuore del nostro incessante rapporto con il Futuro, nel ganglio vitale di quel continuo fare-disfare-rifare progetti che è la materia di cui noi siamo fatti”.
Se in genere si pensa che il moto a luogo è quello del discepolo che cerca e va dal maestro, nel caso di Testori la dinamica è stata contraria. Ancora Doninelli: “Ecco un altro significato della parola ‘maestro’. Un uomo comincia a diventare nostro maestro quando ci fa capire che lui ha percorso tutte le strade del mondo per giungere fino a noi, e non viceversa. Un maestro non è un sublime prestatore d’opera: è un uomo che si consegna totalmente a noi, un cuore messo a nudo per noi”.
Si sarà capito da questi due piccoli estratti come il libro sia un libro “largo”, che va ben oltre il dato biografico e autobiografico, anche se evidentemente li contiene. È un libro fitto di sussulti che aprono brecce nel cuore di chi legge; un libro che genera ricadute, in cui ciascuno può provare a specchiarsi e a scoprire corrispondenze con i propri percorsi (corrispondenze magari mai razionalizzate, di cui non si è mai sufficientemente preso coscienza).
Ovviamente, come detto, c’è anche un tracciato biografico e autobiografico. Da una parte il libro rilegge un frangente delicato e decisivo della storia di tanti (la fine degli anni 70, partendo dalle settimane del sequestro Moro; l’incontro di Testori con don Giussani e con gli universitari di Cl). Dall’altra il libro svela il riscontro privato di quella stagione e ciò che ne è seguito. Sono pagine che oscillano tra la rievocazione ancora stupita di alcune circostanze e le annotazioni su un magistero anomalo. Per quanto riguarda lo stupore fa certamente testo il ricordo del secondo incontro con il “maestro”: “Testori venne ad aprire. Un profumo di legno di sandalo uscì dalla porta e si disperse nel cortile. Vedendomi, disse due volte il mio nome, Luca Luca, e subito qualcuna delle mie impalcature mentali cominciò a crollare: quest’uomo importante, questo grande intellettuale in più di ventiquattr’ore non aveva dimenticato come mi chiamavo. Questo piccolissimo evento bastò a mettermi nella posizione giusta: quella di una persona che aspettava”.
Per quanto riguarda invece il metodo di questo magistero (“Mi chiedeva sempre quello che non sapevo fare e non quello che sapevo già fare”), c’è un episodio che è molto indicativo. Doninelli nell’introdurre un’intervista fatto in carcere per Il Sabato, aveva scritto di aver sperimentato “una sensazione indicibile”. Testori si inalberò: “Indicibile? Cretino! Il tuo compito è quello di dire. A te sembra indicibile perché hai lavorato poco, ecco perché! Perché sei un poltrone, un fancazzista, ecco perché! Le cose vanno dette, altro che ‘indicibile’. Chi vuoi prendere in giro?”. Da allora Doninelli ha imparato a “dire”. E questo libro è certamente un esito toccante e insieme inevitabilmente avventuroso di quella chiamata a “dire”.