Luglio, tempo di immatricolazioni e iscrizioni alle prove di ammissione nelle università. Un passo che in tempo di economia della conoscenza non riguarda più, come una volta, un’esigua minoranza, e che, stando al trend dei Paesi più avanzati, dovrà interessare sempre più giovani. Il 40%, per la precisione, sono coloro che dovranno raggiungere la laurea, stando agli obiettivi che l’Europa si è data per il 2020. L’obiettivo per l’Italia è del 26%, partendo da un esiguo 23,9% che ci colloca tra gli ultimi Paesi dell’Unione per ragazzi trentenni laureati. Insomma, c’è molto fare per convincere le nuove generazioni a intraprendere seriamente un corso di studi (la dispersione infatti è altissima) e c’è molto da fare perché il sistema universitario italiano ne sia all’altezza. Innanzitutto riconoscere che la diversità tra atenei può essere un valore e che questo valore va prima di tutto riconosciuto nei fatti, non definito per legge.
Qualche giorno fa un emendamento al ddl di riforma della Pubblica amministrazione ha provocato accese discussioni. Marco Meloni, deputato del Pd, ha proposto che, per accedere ai concorsi pubblici, il voto di laurea venga valutato «in rapporto a fattori inerenti all’istituzione che lo ha assegnato e al voto medio di classi omogenee di studenti». Un’idea che implicherebbe la valutazione della qualità degli atenei. Per gli oppositori, tra cui molti rettori di università, l’emendamento significherebbe “l’istituzione di classi di cittadini di serie A e B”. Per Meloni e il Pd invece, si tratta di evitare che uno studente di un ateneo più esigente e con valutazioni meno generose, sia penalizzato rispetto ad uno proveniente da un ateneo di manica più larga.
Non si può non essere d’accordo con quanti protestano contro quello che appare un tentativo di decidere dall’alto e asetticamente la qualità della preparazione e delle competenze necessarie a svolgere una determinata professione. Non può essere una legge a stabilire cosa è meglio e cosa è peggio. Valutare l’adeguatezza a un posto di lavoro implica ben altro. Il consenso alla protesta però si ferma qui perché le ragioni contro il ddl non riguardano la pretesa normativa della legge, ma esprimono il tentativo di affermare un egualitarismo astratto. Perché continuare a far finta che il valore legale del titolo di studio rende gli atenei tutti uguali, quando non lo sono?
Da tempo sono in atto profondi cambiamenti nelle università italiane. Innanzitutto per quanto riguarda le iscrizioni che aumentano, in particolare per gli atenei delle grandi città, e per il corso di laurea specialistica. Tra l’anno accademico 2000/01 e quello 2013/14 le immatricolazioni sono aumentate in media di circa il 6%, ma in modo non omogeneo tra regioni. In un primo gruppo di regioni, che comprende Abruzzo, Calabria, Trentino Alto Adige, Lazio e Lombardia, le iscrizioni sono cresciute almeno il doppio rispetto alla media nazionale; in un secondo gruppo sono cresciute secondo la media; in un terzo, hanno avuto una diminuzione di iscritti.
Se si considerano poi le percentuali di iscritti fuori regione, solo Abruzzo, Lombardia, Lazio, Piemonte, Valle d’Aosta e Liguria hanno visto aumentare gli studenti fuori regione a fronte di una vera e propria emigrazione dalle regioni del Sud e del Centro. Emblematico il caso di Bologna che ha subìto il maggior decremento di iscritti negli ultimi dieci anni, quasi il 20% in meno a fronte di un incremento dell’8% circa di Milano e del 5% di Roma con +15% e +7% di fuori regione. L’attrattività degli atenei milanesi e romani è ancora più forte in termini di laurea specialistica.
A fronte di una media nazionale del 56% circa di laureati specialistici che a tre anni dal conseguimento della laurea ha un lavoro, la percentuale degli occupati negli atenei milanesi è nettamente superiore, con punte dell’80% per i laureati del Politecnico.
In una parola, sta avvenendo quello che si continua a ignorare nelle dichiarazioni ufficiali per non turbare il politically correct del “tutto uguale”: gli studenti stanno migrando dagli atenei del Centro-Sud verso gli atenei di grandi città come Milano e in misura minore Roma, essenzialmente per avere più possibilità di lavoro dopo la laurea.
Ignorare e non prendere decisioni su questi dati di fatto significa avere atenei sempre più svuotati di studenti e incapaci di mantenersi dignitosamente perché la quota di trasferimenti statali non è in grado di sopperire alla diminuzione delle somme provenienti dalle tasse degli studenti.
Bisogna rassegnarsi alla morte lenta di tanti atenei, magari ancora prestigiosi per la ricerca? No. Ma a una condizione: accettare che la diversità possa essere un valore e rinunciare a imporre ideologicamente uguaglianze a priori che poi sono differenze e ingiustizie nei fatti. Senza valorizzare il merito, infatti, i capaci e meritevoli ma poveri sono comunque svantaggiati.
Alcuni atenei probabilmente dovranno accorparsi, altri dovranno intraprendere la strada della specializzazione, orientandosi allo sviluppo di alcuni settori di ricerca o di didattica e ridimensionando l’attività in altri settori. Qui andranno gli studenti in cerca di quella specializzazione che non possono trovare nei grandi centri.
Per favorire tale diversificazione positiva, servono politiche ed interventi precisi. In primo luogo, occorre aumentare (come il Miur sta già facendo) la quota di fondi statali destinati alle università secondo criteri di merito, in modo che gli atenei possano continuare a migliorarsi. In secondo luogo, bisogna favorire la libertà di scelta responsabile degli studenti (borse di studio, prestiti, sgravi fiscali), per fare in modo che le università incentivino sempre più gli alunni migliori, e perché questi avvertano la convenienza di mettere impegno ed entusiasmo nel proprio percorso.
In altre parole: per valorizzare la qualità, non occorre “regolarla” rigidamente, ma bisogna lasciare invece spazio alla libertà e alla creatività delle università (autonome) e degli studenti.
Certo, sono scelte dolorose che levano potere a potentati locali e accademici, ma che potranno permettere di ottenere il meglio per gli studenti e per tutto il sistema Italia, in una collaborazione finalmente virtuosa tra centro e periferia.