Appassionante e senza possibilità di fraintendimenti è la liturgia che la Chiesa cattolica propone nel rito romano la XVI domenica del tempo ordinario. Al centro della narrazione biblica sta la figura del pastore che le diverse letture ci mostrano connotato in modi molto diversi. Il profeta Geremia parla degli antichi pastori del popolo di Israele rigettati da Dio perché non avevano gli occhi e il cuore pieni dei bisogni delle pecore loro affidati. Essere pastori, avere una responsabilità, era diventato per quegli uomini un “potere”, una funzione che aveva un unico obiettivo: garantire se stessi. Capita anche oggi in tutte quelle realtà autoreferenziali che compongono la nostra variegata società: dalla famiglia alla comunità, dalla scuola al posto di lavoro, dall’università alla politica, ciascuno — proprio come i pastori di Israele — pare impegnato a preservare il proprio posto, il proprio potere.
Nemmeno la Chiesa è aliena a tutto questo. Proprio là dove il servizio dovrebbe brillare come la cifra distintiva del potere, assistiamo attoniti a pastori, laici, chierici e intellettuali che allontanano il popolo dalla freschezza del primo amore spadroneggiando e imponendosi con la propria verità. A costoro Dio dice: “Guai a voi!”, promettendo la punizione più amara e più sconcertante, ossia la fine della fecondità.
Il Vangelo di Marco, in questo affresco, diventa un capolavoro mozzafiato. Qui i discepoli — nuovi pastori — sono costituiti e inviati da Dio stesso e la loro opera trabocca di fecondità al punto che tutti i bisognosi guardano a quel gruppetto e a quel Maestro non come una speranza, ma come La speranza. Ogni volta che il mio bisogno è a casa, si sente a casa, io sono di fronte ad un pastore di Dio. Non è più il potere a determinare l’Auctoritas, ma è l’autorevolezza di fronte al bisogno di ciascuno a suscitare una sequela nuova, una storia nuova, un popolo nuovo.
Autorevoli di fronte al bisogno degli altri, i pastori di Dio non sono solo quelli che comandano né quelli che il nostro capriccio elegge a “guru” o a “profeti” del momento, ma sono coloro che ci sono oggettivamente dati da Dio attraverso il Mistero della Chiesa e che un cuore libero e commosso riconosce senza “se” e senza “ma”. Essi non sono i “migliori”, i “perfetti”, ma coloro che, l’Apostolo ci dice, hanno fatto “dei due uno solo”, ossia si sono riconciliati, hanno intrapreso nel loro spirito la via della pacificazione con sé e con la propria umanità.
Di che cosa ha bisogno la nostra epoca se non di uomini riconciliati, di peccatori salvati e redenti, di mendicanti che smettano di seguire le loro velleità ideali per iniziare ad amare le loro ferite reali? Non è questa la testimonianza che uomini diversi, come il cardinale Martini e il cardinale Biffi, ci hanno consegnato?
E allora che serve inveire, demarcare, continuare a dividere, quando è sempre molto più semplice obbedire? E’ qui che comincia la Chiesa del futuro, quella Chiesa che sarà sempre più appassionata alla Misericordia del Suo Signore fino a saper guardare tutto con verità, fino a vivere ogni circostanza — si chiami Grecia o immigrazione, e molto altro — come una semplice è reale possibilità di bene, possibilità di carità. Questa Chiesa comincia dove è cominciata la Chiesa in ogni tempo: da un manipolo di uomini commossi e guariti dall’Amore di Uno che li ha amati senza chiedere in cambio nulla fuorché il loro cuore. Sapremo noi oggi nuotare, chiacchierare sotto l’ombrellone, mangiare, discutere, soffrire o far visita ad un ammalato con la stessa inaudita gratuità? Saprà questa gratuità ridestare noi stessi fino al perdono, fino al sacrificio, fino alla morte?
Forse è proprio per questo, per essere capaci di questo, che conviene davvero — in questa afosa domenica d’estate — non rinunciare alla Messa, all’unico luogo al mondo dove le cose cambiano davvero e dove quello che siamo — il nostro pane, il nostro vino — diventa cibo per una vita che non finisce più. Ma che attende il tramonto come il luogo e lo spazio dell’incontro più bello, l’incontro con Colui che, sorprendentemente, ci ha semplicemente amati per primo.