E’ una settimana che non riesco a liberarmi del numero vecchio di Time Magazine. C’è un titolo in copertina che accompagna la cruda immagine in bianco e nero del braccio di un uomo che sta per iniettarsi nelle vene qualcosa, un uomo che non si vede se non nell’ombra riflessa sul muro: “The Opiod Diaries”, i diari degli oppioidi. Gli oppioidi, la grande pestilenza che sta mietendo nel nostro paese oltre 60.000 vite all’anno. Più o meno quante ne hanno portate via le guerre in Vietnam, Iraq ed Afganistan messe insieme.
Nel numero 9 del Time ci sono foto e ci sono storie, ma soprattutto foto, tutte in bianco e nero, che trasudano tristezza e sanno di tragedia. Sono immagini potenti che mi riportano alla memoria l’impatto violento di alcune foto della guerra in Congo che da bambino avevo casualmente trovato su una rivista dei miei genitori. Il bene ti può illuminare, il male ti può ipnotizzare.
Piaccia o no, quello lanciato da Time è un grido d’allarme. Beh, siamo oltre l’allarme, siamo allo stato di crisi conclamata. Può darsi anche che la mia intensa reazione sia dovuta al fatto che per la prima volta in vita mia mi hanno prescritto delle pasticcone di morfina per il decorso post operatorio di un intervento alla spalla. Ne ho mandata giù qualcuna per i primi due giorni poi ho lasciato perdere. Il solo pensiero mi disturbava. Teniamoci un po’ di dolore che nella vita ci sta anche quello.
Pain killers, così si chiamano nel linguaggio comune, “quelle che ammazzano il dolore”. E apparentemente ci riescono. Si parte da un dolore fisico, reale, magari cronico o anche solo temporaneo, ma una cosa che ci tormenta, disabilitante. Si scopre che esistono cose che ce lo portano via, o quantomeno ce lo nascondono, lo mettono a tacere per un po’. Poi ci si accorge che non solo “quel dolore”, ma “tutto il dolore” può venirci lavato via di dosso. Chissà, questa lotta per cercare di evitare ad ogni costo e completamente il dolore fisico semina in noi l’illusione che si possa anestetizzare anche quello dell’anima. Così si prende il via e quasi per inerzia si arriva a cose più potenti e molto meno costose dei 50 dollari di una pasticca di Percocet, Oxycodone o Fentanyl. Ci si tuffa su roba sintetica che arriva dai laboratori di Cina e Messico, incredibilmente più potente dei farmaci, o semplicemente si va sull’eroina. Una dose capace di ribaltarti la vita ed anche di ammazzarti costa meno di un cheeseburger da McDonald. Non è semplicemente il tizio che non ha lavorato un giorno in vita sua, è l’impiegato delle poste, il pilota di linea, è l’insegnante, il poliziotto, il pompiere che ci restano intrappolati. è quello che sarebbe il nostro ‘Sig. Rossi’ che sta morendo 160 volte al giorno nell’America di oggi.
“Vogliono che mi disintossichi. Io voglio disintossicarmi. è che dire e fare sono così lontani” – dice una delle brevi testimonianze sullo special report di Time, una delle persone morte di overdose tra il tempo dell’intervista e la pubblicazione dell’articolo. Sono tutte così: se c’è un grido che si leva dalla bruttura ritratta è la voglia di vivere, il bisogno di redenzione, la speranza di un cambiamento che riporti il “bene” al centro dell’esistenza. Sì, nessuno cerca l’autodistruzione, eppure essa sembra essere l’unico frutto che matura in questa umanità fragile e devastata. L’umanità di chi al fondo è solo, di chi ha fallito quelli che ci dicono essere gli obiettivi della vita. C’è chi risponde cercando di dimenticare il proprio dolore e la propria solitudine cavandoseli dalle vene, chi cerca di liberarsene scaricando la propria violenza sugli altri. Ma ci fossero in vendita bene e felicità tutti comprerebbero quelli piuttosto che droga o armi.
Time non ci dà risposte. Ci dice che il Nalaxone è il salvavita che blocca gli effetti degli oppiodi, ma non ci dice certo che la soluzione sia che tutti si vada in giro con una dose di Nalaxone in tasca. Sarebbe come dire che la soluzione a tutte le sparatorie nelle scuole sia armare gli insegnanti. Non c’è soluzione “strategica”, e non è questo che possiamo chiedere ed aspettarci dalla politica e da chi la fa.
Si può solo sperare che quell’amaro grido alla vita venga ascoltato, accolto, preso per mano, abbracciato ed accompagnato.
E’ questo il seme che dobbiamo coltivare, perché la speranza richiede un lavoro.