E così sono finiti anche gli anni Zero del secondo millennio. Storici, politologi, studiosi dei movimenti culturali già si buttano sul passato decennio per cercare di racchiuderlo dentro qualche formula che si ricordi facilmente.
Gli anni della paura inaugurati dal crollo delle Torri Gemelle? Quelli della globalizzazione e dell’emergere di nuovi equilibri mondiali? Oppure quelli del boom della comunicazione virtuale, fino al costituirsi di un gigantesco sapere collettivo, quasi una coscienza universale che chiamano noosfera? Staremo a vedere.
Di sicuro c’è che altri dieci anni sono passati, che è molto diverso constatarlo da quindicenne o da cinquantenne e che in occasioni come queste la domanda sul significato del tempo ritorna pungente.
In fondo sono tre le possibili percezioni del tempo che passa. La prima è quella della ciclicità circolare. È facile, durante il pranzo di Natale o il cenone di capodanno fare un confronto con quello dell’anno precedente e, se qualcosa non funzione, dire: «In questo posto l’anno prossimo non ci torno».
Sono cose che ci danno la percezione, appunto, di un ciclo che ritorna su se stesso, di una ruota che gira per rimettersi, comunque, sempre sulla stessa posizione. Come il tempo è un circolo che si ripete a livello personale, così sarebbe a livello storico e cosmico. In questa visione non si riesce a evitare un certo senso di soffocamento; come quando si sentono illustri scienziati che dicono che la mia morte personale non è che un rientrare dei miei atomi nel ciclo della natura, che li ricomporrà in qualcos’altro a suo piacimento. E così all’infinito.
La seconda percezione è legata invece all’immagine della retta. Il tempo sarebbe una linea che procede in continuazione. Il problema è qui stabilire il senso di questo procedere. Dove sta il punto che ne giustifica il moto? Può essere collocato alla fine della linea stessa, come pensano tutti i progressismi e gli utopismi; oppure all’inizio, in un’ipotetica età dell’oro, magari di piccole dimensioni, come nel rimpianto della gioventù o nel tradizionalismo nostalgico che ripete: «Una volta sì che…». Ma nulla ci assicura che la retta del tempo vada verso un fine positivo; anzi il catastrofismo è uno stato d’animo che si diffonde sempre di più. Quanto al ritorno al passato è così impossibile che non mette conto farci affidamento.
Di fatto noi viviamo in un contesto che ha assunto – e tragicamente dimenticato – una terza concezione del tempo. Quella secondo cui il “dove va” la retta del tempo è qualcosa di già accaduto nella retta stessa. In un preciso momento della storia, in un – direbbe Eliot – «punto di intersezione del senza tempo col tempo» è successo il fatto che a tutto il tempo dà il suo significato. Il tempo dopo quel fatto, il nostro, non è senza senso perché è il luogo dove quel fatto si sta manifestando compiutamente; e non è ansioso e insicuro, perché ciò che importa è già successo. Ne abbiamo fatto memoria a Natale.
Dico che viviamo in questo contesto perché gli anni li misuriamo esattamente a partire da quel fatto: prima e dopo Cristo. Dico che lo dimentichiamo quando leggo che un qualche burocrate dell’Unione europea fa stampare, coi nostri soldi, migliaia di diari scolastici ove non si riporta che il 25 dicembre è Natale e che il prossimo 24 aprile sarà Pasqua; e non vengano a raccontarmi che si tratta di una banale svista. E dico che questa dimenticanza è tragica, perché se il tempo non ospita in sé il suo significato, sono condannato al noioso ripetersi del circolo o all’insicurezza di un cammino dalla meta ignota.