Ci risiamo. Con l’autunno si riaccendono le proteste in università, secondo un copione ampiamente conosciuto. L’occasione è costituita dalle misure contenute nel decreto n. 112 (ormai convertito nella Legge n. 133) che impone, tra l’altro, pesanti tagli al fondo di finanziamento ordinario (FFO) delle università. Da parte di una piccola minoranza, in alcuni atenei, sono in atto tentativi, che finiscono per essere inevitabilmente violenti, di sospendere l’attività didattica. La situazione potrebbe anche degenerare, soprattutto se sostenuta dal tam tam delle agenzie di stampa.
Resta il fatto, invece, che tra quanti quotidianamente lavorano in università sono palpabili un profondo disagio e una sincera preoccupazione sul futuro. Cerchiamo allora di capire i motivi di tale preoccupazione e di quali prospettive abbiamo bisogno.
Tra gli articoli del decreto n. 112 che interessano il settore universitario due, in particolare, meritano un’attenta valutazione: l’art. 16 e l’art. 66.
Quest’ultimo impone un taglio del FFO dal 2009 al 2013 per circa un miliardo e mezzo di euro. Direttamente collegata a tale misura è la limitazione dell’assunzione di personale a tempo indeterminato da parte delle Università: per il triennio 2009-2011 nuove assunzioni saranno possibili entro un limite di spesa pari al 20% di quella relativa al personale cessato nell’anno precedente. In ogni caso il numero delle unità di personale da assumere non può eccedere, per ciascun anno, il 20% delle unità cessate nell’anno precedente. Per il 2012 il limite è del 50%. I risparmi derivanti dal turn over restano nelle casse dello Stato.
L’unico scopo esplicito ricavabile dal provvedimento è quello di fare cassa giacché i tagli sono fatti a pioggia invece che – come auspicato anche dal Prof. Checchi – in modo selettivo.
Secondo alcune stime queste misure comporteranno (al netto della riduzione dei costi derivata dal blocco del turn over e dal rallentamento della dinamica retributiva di docenti e non docenti) un taglio del FFO complessivo a partire dal 2010 intorno al 10%. Se questo dato fosse anche solo verosimile il collasso del sistema, da più parti denunciato, non sarebbe improbabile.
Per evitare il tracollo – almeno così sembra – l’art. 16 dà facoltà alle università di trasformarsi in fondazioni di diritto privato. La legge, cioè, autorizza (ma non obbliga) gli atenei a dismettere gli abiti dell’ente pubblico e a vestire quelli di un soggetto privato. Sembra essere una via d’uscita, finalmente di stampo riformista, in direzione di una liberalizzazione del sistema. È così? No. La disposizione è talmente parziale e generica su molti punti, da rendere pressoché impossibile, al momento, la sua applicazione.
Già la legittimità della norma che attribuisce ai senati accademici il potere di deliberare a maggioranza assoluta la trasformazione in fondazione appare dubbia. Certa è, invece, la sua ambiguità circa il futuro regime dei finanziamenti statali.
Il comma 9, infatti, a riguardo stabilisce che «resta fermo il sistema di finanziamento pubblico», ma subito dopo si precisa che «a tal fine, costituisce elemento di valutazione, a fini perequativi, l’entità dei finanziamenti privati di ciascuna fondazione».
In che misura (e sulla base di quali parametri) verrà stabilita l’entità dei finanziamenti pubblici alle università ormai trasformate in fondazioni? Da un’interpretazione letterale del testo si evince che le università-fondazioni che avranno attirato meno finanziamenti privati avranno diritto ad un maggior finanziamento statale. Come dire: i migliori saranno ancora una volta penalizzati.
E in ogni caso siamo certi di trovarci davanti ad una vera “privatizzazione”? Non saremo di fronte ad un ente formalmente privato, ma nella sostanza regolato dal diritto amministrativo?
Come recita infatti, il comma 14: «Alle fondazioni universitarie continuano ad applicarsi tutte le disposizioni vigenti per le Università statali in quanto compatibili con il presente articolo e con la natura privatistica delle fondazioni medesime».
Inoltre bisognerebbe stabilire i rapporti tra l’attuale stato della governance e la veste privatistica.
La possibilità di trasformazione degli atenei in fondazioni, insomma, si rivela, alla luce del dettato normativo, come una goccia liberista in un sistema intriso di centralismo. Si tratta di una misura che, varata in tutta fretta, rischia in concreto di non essere applicabile. Molto meglio sarebbe stato, invece, riprendere il ben più ponderato disegno di legge proposto nella XIV Legislatura dall’on. Nicola Rossi; disegno di legge in cui i problemi sopra accennati erano tenuti in considerazione.
In definitiva, la politica dei tagli indifferenziati e la mancanza, sino ad ora, di un serio e meditato progetto di sviluppo del sistema tradiscono una concezione ancora statalista. A breve il Ministro Gelmini illustrerà al CUN le sue linee guida per l’Università. C’è da augurarsi che sia l’inizio di un processo di rinnovamento del sistema ispirato ad un vero riformismo. Questo è ciò di cui l’università ha bisogno.