Il ritorno dell’ora solare al posto di quella legale ci ha riportato più vicino ai ritmi della natura. Che indicano l’inesorabile introdursi del pieno autunno. Fino ad ora questa stagione aveva mostrato il suo aspetto forse più bello: una specie di maturità dell’estate sovraccarica di frutti, di luce declinante ma ancora vivida, di imprevedibili gialli e rossi nelle chiome degli alberi. Ora l’autunno cambia pelle: giorni e giorni di pioggia hanno ingrigito il cielo e preparato le nebbie del mattino, molte delle foglie gialle e rosse, fino a ieri così sgargianti sui rami, ora sono a terra in un fango indistinto.
Una volta un famoso dermatologo mi ha fatto osservare che per le malattie della pelle l’autunno è il periodo peggiore: ci squamiamo come rami che perdono le foglie e ci ritroviamo, a causa di ciò, pieni di piccole, fastidiose cicatrici. Dal canto suo un amico psichiatra mi ha detto che in autunno aumentano moltissimo i disturbi depressivi: come se anche dalla nostra psiche si staccassero continuamente dei lembi, lasciando una superficie estremamente irritabile. Per cui anche un banale contrattempo produce un strano disagio, cose che prima si facevano tranquillamente diventano di colpo faticose, rapporti fino a ieri sereni sono offuscati da nuvole che non si sa nemmeno da dove vengano. Tutto ciò indica certamente che il nostro fisico e la nostra psiche partecipano del ciclo della natura, che prevede questo doloroso sfogliarsi, questo imbarazzante denudarsi autunnale. Ma noi non siamo come una pianta, che non soffre e aspetta incosciente che la ruota del ciclo naturale torni a salire verso la rinascita primaverile; che se poi l’albero vicino non ce la farà e verrà rinsecchito dal gelo invernale, quella pianta non se n’accorge neanche. Per noi questo ciclico deperimento di sé esige una spiegazione e, più ancora, un’ipotesi di soluzione.
La più grande risorsa che abbiamo per imboccare la strada sella soluzione è proprio la consapevolezza. So di partecipare a questo ciclo con tutti i suoi aspetti dolorosi, ma so anche che non tutto di me coincide col ciclo. Allora accetterò l’incremento di fatica nell’agire e le nuvole che oscurano i rapporti, ma saprò anche trovare tempo per quei gesti – magari dimenticati quando la ruota girava tranquilla – nei quali sperimentare un po’ di riposo e spazio per quei rapporti che non hanno nuvole.
Così ci si può alzare al mattino abbattuti per non si sa bene che cosa e poi ritrovarsi a cena con un amico cordiale, andare con lui al concerto di un autore amato e ritrovarsi d’improvviso senza più quel groppo che non andava né su né giù, senza quell’inesplicabile vuoto che si portava dentro.
In tal modo si scopre che la spoliazione autunnale è solo un passaggio. Non meccanico come quello degli alberi, ma consapevole come quello di esseri ragionevoli. Che, come tali, sanno benissimo che il ciclo dei ritorni primaverili non durerà all’infinito; che verrà una volta in cui il passaggio sarà totale, in cui quella parte di noi che annualmente perde le foglie morirà. Forse per ricordarci questo la Chiesa proprio in questo periodo – il prossimo 2 novembre – ci fa meditare sulla morte. È la suprema spoliazione dell’albero dell’io, è il passaggio ad un tempo novo, liberato dalla dolorosa ripetitività dei cicli.