Esiste un male incomprensibile, nel quale non si riesce a penetrare. L’uccisione di donne si ripete con sinistra follia e ci sta davanti, con il suo oceano di orrore oscuro e incomprensibile. Questi uomini che uccidono le loro donne al momento della fine di una relazione, che sia durata un anno, o cinque, o un’intera vita, mostrano una violenza che non ha più nulla di umano, ma rappresenta la regressione alle pulsioni primarie, lo scivolare nell’ombra lasciando spazio alle reazioni e agli impulsi.
È difficile da comprendere la logica che struttura simili gesti. Ed è proprio da questa nostra incapacità nel ricostruire una tale dimissione dalla ragione che occorre partire. Sono infatti azioni incomprensibili per chi, come tutti quelli della mia generazione, era pronto a sopportare abbandoni ed a sentirsi dire dei “no”. Negli anni sessanta e settanta il tema dell’amore perduto era centrale nelle canzoni di ogni tipo e di ogni stagione. Si conviveva con chi cantava, a volte anche allegramente, la malinconia, si cresceva e si diventava grandi a colpi di narrazioni di storie finite, di primavere perdute e poi recuperate.
L’accettare di essere respinti e messi da parte da chi accendeva le nostre emozioni di adolescenti ci addestrava per la vita adulta. Era per noi chiaro come un amore blindato da coercizioni e vincoli avrebbe costituito una realtà inconsistente. La libertà riconosciuta all’altro di interrompere la relazione, di abbandonarci e andare altrove e con chiunque avesse preferito, era la condizione essenziale affinché si fosse certi del suo affetto, della sua libertà di esserci e di restare. Era la sua piena libertà nello sceglierci a costituire la fonte autentica di ogni nostra gioia.
Si moltiplicano oggi, invece, i segnali opposti. Troppo spesso la fine della relazione è vissuta come una ferita mortale dalla quale è impossibile riprendersi. Una ferita non rimarginabile e quindi incompatibile con la vita: la propria o quella dell’altro, o entrambe. E sono soprattutto gli uomini che non sanno sostenere la libertà di chi si è incontrato, che non sanno sottoscrivere la condizione minima per ogni autentica relazione affettiva: la piena e totale libertà di chi si ama.
Perché proprio oggi? Perché molti adulti sono così prossimi, oggi, a cadere nel baratro dei comportamenti aggressivi a seguito di un abbandono affettivo; e qualcuno finisce con il caderci dentro, diventando un omicida ed un assassino? E perché simili comportamenti emergono in concomitanza con le esibizioni della relazione stessa, con i nomi tatuati ed i lucchetti serrati ai lampioni? Perché si afferma il desiderio di suggellare una scelta con il crisma della sua esibizione, quando, in realtà, la stabilità non può essere che il risultato di un cammino di conoscenza reciproca, un frutto da cogliere all’arrivo e non da esigere alla partenza? Cosa porta a sovraccaricare la relazione affettiva di esigenze e di aspettative, tali da diventare spesso un’ossessione? Cosa rende possibile, oggi, un simile spettacolare errore?
Nell’attesa di trovare le tante risposte a simili domande, può valere una riflessione intermedia, colta anche questa confrontando il presente con il passato.
La relazione affettiva, l’innamoramento, sono stati a lungo concepiti come espressioni del desiderio di una vita da costruire, di un progetto da realizzare. Vita e progetto erano fondamentali e proseguivano anche quando la singola storia finiva. Nella mia generazione si era ancora eredi di un passato nel quale quanti ci avevano preceduto si erano amati sulla base di pochi elementi di conferma e quel poco costituiva l’essenziale, perché si sapeva dove si andava, e si restava insieme per una vita. Più il progetto era chiaro e più l’affetto era semplice e si manifestava nella sua solare evidenza.
Ancora negli anni settanta, se il progetto si faceva più impreciso, restava comunque la “santa voglia di vivere” a rendere possibile l’analisi delle ragioni di una fine: e queste apparivano sempre positive in quanto sgomberavano il campo da equivoci e da incertezze, prefigurando in modo ancora più chiaro a cosa si tenesse veramente. La ragione era l’ancella della passione, la sua diligente compagna di strada.
Sembra allora di poter dire che più il proprio progetto di vita, la fiducia nel proprio “destino”, la propria voglia di esistere, si scoloriscono, più si soccombe al peso delle fatalità, si vive nel presente e ci si risolve nel quotidiano. Un progetto scolorisce quando non ha ragioni, quando sono le pulsioni e le emozioni a orientarci. Più le pulsioni, le reazioni emotive, gli scatti istintivi sono consentiti, compresi e tollerati più la compagnia della ragione è inutile: l’istinto basta a sé stesso e non ha bisogno di mediazioni.
La relazione affettiva non rinvia quindi ad un progetto, ma solo ad uno snodo di emozioni all’interno di un’esistenza che ha attribuito loro un posto importante. Emozioni e passioni, diventando l’unico elemento qualificante della propria esistenza, fanno della relazione affettiva il loro luogo di residenza principale. In una soggettività nella quale gli istinti hanno preso il potere, sono questi a reclamare soddisfazione, così come sono sempre questi a chiedere vendetta per ogni appuntamento mancato, per ogni abbandono. Ed è a questo delirio che siamo sempre più esposti.