Le falsità sui cristiani

Quando si parla della questione della persecuzione contro i cristiani, emergono, dentro e fuori la Chiesa, due posizioni molto parziali

Quando le cronache riportano all’attenzione del mondo – come è tragicamente successo in queste ultime settimane – la questione della persecuzione contro i cristiani, emergono, dentro e fuori la Chiesa, due posizioni a mio avviso molto parziali.

Da un lato si sottolinea che il cristianesimo è un elemento decisivo dell’identità storica e culturale dell’Occidente e che per questo i cristiani vanno difesi dagli attacchi degli estremisti. È una posizione che ha il vantaggio di riscuotere tutti quelli che, specialmente tra le autorità politiche, vorrebbero far finta che non stia succedendo nulla e pensano che, per esempio, gli scambi commerciali con la Cina o coi paesi arabi possano far chiudere un occhio sulla difesa della libertà religiosa in quelle terre.



Il limite di questa impostazione è però quello di appiattire la fede cristiana ad addobbo religioso dell’Occidente. Il che è falso, perché il cristianesimo è universale. E rischia di essere controproducente, perché chi attacca i cristiani a volte lo fa proprio in quanto li percepisce rappresentanti dell’odiato Occidente.



Dall’altro lato spunta l’idea che l’unico cristianesimo autentico sarebbe sempre e solo quello martirizzato. Il ragionamento è pressappoco questo: col famigerato editto di Costantino – siamo nel 313 – la Chiesa (allora ancora indivisa) ha commesso una specie di peccato originale: l’alleanza col potere politico; per liberarsene deve spogliarsi di ogni legame con tutto ciò che anche lontanamente è collegato col potere.

È l’idea di una Chiesa inerme, che non si immischia, che non usa della realtà umana concreta; e il potere, a ogni livello, ne è inevitabilmente parte. Senza contare che normalmente i propugnatori di questa visione sono persone molto abili nell’usare il potere, almeno quello mediatico. Il fatto è che si tratta di una visione astratta, che va bene per un convegno o un editoriale. Nella vita concreta le mani in pasta bisogna mettercele eccome; con tutti i rischi del caso. Se è vero che la storia cristiana è costantemente attraversata dal rischio del cedimento al potere, la soluzione non può essere un’astensione previa da ogni implicazione con l’umano nella sua integralità.



 

Sant’Ambrogio ha vissuto molto acutamente il problema. Quando è diventato vescovo di Milano, lui che proveniva dalla carriera politico-amministrativa, il cristianesimo era libero da parecchi decenni e proprio in quel periodo è addirittura diventato la religione ufficiale dell’impero. Come far sì che lo stretto rapporto col potere non inquinasse la fede? Col coraggio della verità.

 

Quando l’imperatore Teodosio si macchiò di un eccidio, Ambrogio si mise davanti alla porta della chiesa per impedirgli di entrare se prima non avesse chiesto perdono e fatto penitenza. Il vescovo non è il supporter del potere imperiale e nelle questioni della fede tocca a lui decidere e non al potere, fosse pure quello supremo dell’imperatore.

Ambrogio non ha cercato il martirio, ma si è chiesto come il cristiano, cittadino di un impero diventato anch’esso cristiano, potesse dare testimonianza autentica (che è proprio il significato della parola martirio). Prima di tutto col culto dei martiri stessi. Ambrogio ne ha rinvenuto i corpi e onorato con basiliche e inni le spoglie e la memoria; i suoi fedeli non dovevano dimenticare che per la fede si può, e qualche volta si deve, morire.

 

E poi ha sostenuto è favorito un’altra forma di dedizione della vita a Cristo, una forma che non prevede lo spargimento del sangue, ma che ha la stessa carica di totalità del martirio: la verginità. Quella abbracciata da sua sorella Marcellina, cui Ambrogio ha dedicato pagine memorabili. 

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