Non c’è un giudice a Roma

Una sentenza che ha aperto polemiche, quella della Corte di Cassazione, che obbligherebbe le scuole paritarie pubbliche a pagare l'Imu. Ne discute GIORGIO VITTADINI

Quando nella celebre opera di Collodi, Pinocchio, dopo essere stato derubato dal Gatto e la Volpe, si rivolge al giudice per avere giustizia, questi sentenzia con logica ferrea: “Siccome sei stato derubato devi andare in galera”. La logica della sentenza della Cassazione che condanna le due scuole paritarie di Livorno a pagare l’Imu-Ici al Comune sembra seguire la logica del magistrato collodiano. Come si legge in una nota del Comune di Livorno: “poiché gli utenti della scuola paritaria pagano un corrispettivo per la frequenza, tale attività è di carattere commerciale, “senza che a ciò osti la gestione in perdita”. In proposito il giudice di legittimità ha precisato che, ai fini in esame, è giuridicamente irrilevante lo scopo di lucro, risultando sufficiente l’idoneità tendenziale dei ricavi a perseguire il pareggio di bilancio. E cioè, il conseguimento di ricavi è di per sé indice sufficiente del carattere commerciale dell’attività svolta”.

La sentenza, se vogliamo scriverla nello stile di Collodi, suona pressappoco così: “Sappiamo che i vostri bilanci sono in rosso, che non avete alcuno scopo di lucro, ma, per il fatto stesso che raccogliete le rette, maneggiate dei soldi, non siete diversi da una multinazionale, e dunque pagate”.

Vorrei in questo editoriale affrontare la questione secondo un’ottica diversa da quella della libertà di educazione che è stata bene espressa dal segretario della Cei Galantino, e affrontare il tema dal punto di vista del valore sociale delle realtà non profit. Inutile cercare di capire come i “dotti” magistrati pensino che le due scuole possano sopravvivere pagando l’Imu, gli insegnanti, il personale, la luce, le pulizie, il riscaldamento, ecc, visto che le sovvenzioni statali sono risibili. Questo evidentemente non li riguarda: per loro sembra importante stabilire che scuola paritaria e scuola statale non sono equiparabili, in barba alla legge Berlinguer che le ha definite entrambe ugualmente “pubbliche”. Bastano elementari conoscenze di economia per capire la differenza sostanziale tra uso del denaro in un’attività commerciale senza fine di lucro e in una in cui lo scopo sia il profitto. Le scuole paritarie sono realtà non profit che perseguono un interesse pubblico, anche essendo private, come sentenziò la Corte costituzionale a proposito addirittura delle fondazioni bancarie. La sentenza della Cassazione invece è come se di fatto considerasse le Misericordie toscane, la San Vincenzo, il Banco alimentare, i Martinitt e le Stelline, l’attività di formazione professionale dei Salesiani secondo un parametro finora attuato dai peggiori commissari liberisti dell’Unione europea: semplicemente espressione di un mercato in cui la differenza tra privato e pubblico è mostruosamente ignorata.

I cassazionisti equiparano il profit al non profit sposando un’ideologia economica contraria al dettato costituzionale nell’articolo 2 (“La Repubblica tutela le formazioni sociali”) e nell’articolo 118 sulla sussidiarietà orizzontale. Chissà se qualcuno avrà il coraggio di denunciare alla Corte questa sentenza che se portata alle estreme conseguenze può essere disastrosa per l’assetto democratico del nostro Paese, per ciò che riguarda tutta l’attività di assistenza ai più deboli, l’educazione e la solidarietà. E’ venuto il momento che faccia sentire la sua voce il largo e trasversale fronte di chi ritiene che la compresenza di realtà a fini di lucro e realtà non profit di utilità sociale sia un importante ingrediente di civiltà, sviluppo, democrazia. Ed è ora che si muova anche per richiamare la politica al suo ruolo, lasciato per troppo tempo vacante per debolezza e confusione, e occupato dallo strabordare dall’azione giuridica.

Sul piano legislativo la confusione tra commerciale e a fini di lucro che offre il pretesto alla sentenza è all’origine di tanti pronunciamenti dannosi per il mondo del non profit e purtroppo questa ambiguità costituisce le fondamenta dell’intero impianto legislativo – italiano ed europeo – in materia di Terzo Settore, come ha mostrato l’articolo di ieri di Monica Poletto.

Per quanto riguarda l’IMU, la mancanza di chiarezza nasce dallo sciagurato decreto legge del 6 dicembre 2011, n. 201, e dal susseguente emendamento 92 bis voluto dal Governo Monti in cui l’Italia come un cagnolino si è attenuta ai voleri di uno dei peggiori commissari europei alla concorrenza di tutti i tempi, l’ultraliberista Joaquin Almunia, la cui visione potrebbe portare a considerare anche la paghetta dei genitori ai figli come attività commerciale sospetta di alterare la concorrenza. Questo intervento legislativo seguiva il decreto Bersani del 2006, che per primo aveva limitato l’agevolazione alle attività che non avessero “natura esclusivamente commerciale”.

Visione purtroppo contagiosa come un virus: alla sentenza si è aggiunta la spiegazione del primo presidente della corte di Cassazione, Giorgio Santacroce che si ispira alle stesse visioni ultraliberaliste. Santacroce afferma che la sentenza fa esplicito riferimento ad “un’indagine comunitaria per sospetti aiuti di Stato agli enti della Chiesa, che sarebbero potuti derivare da un’interpretazione della predetta esenzione non rigorosa e in possibile contraddizione con i principi della concorrenza”. Torniamo in piena epoca collodiana e precisamente a Francesco Crispi che con la sua legge del 1890 espropriò le opere di assistenza realizzate dagli ordini religiosi. E, più in generale, torniamo all’anticlericalismo di Stato, che in odio alla Chiesa assimilò all’istituzione ecclesiale qualunque opera non profit di ispirazione cristiana, anche se posseduta da laici in forma di cooperativa o fondazione. Perché dovrebbe avere più rilevanza che un’opera è realizzata da qualcuno di ispirazione cristiana del fatto che quell’opera risponde ad una funzione di utilità sociale? Che qualche funzionario europeo, dopo aver discettato di pizza, latte e formaggi si inventi una tale definizione di Chiesa e vi assimili libere iniziative non profit di cittadini in palese violazione di norme della costituzione che tutelano la libertà di opinione e di impresa, non giustifica la forzatura ideologica del primo presidente di Cassazione. Non giustifica l’affermazione secondo cui “l’esenzione spetti laddove l’attività cui l’immobile è destinato, pur rientrando tra quelle astrattamente previste dalla norma come suscettibili di andare esenti, non sia svolta in concreto con le modalità di un’attività commerciale… L’onere di provare tale circostanza spetta al contribuente”. E’ il sospetto come metodo giuridico: non basta che un’attività sia compresa tra le attività esenti, perché questa esenzione è “astratta”. L’idea è che perversi operatori non profit stanno cercando di fregare lo Stato esercitando surrettiziamente attività commerciale e allora devono dimostrare di non farlo.

 

L’attesa Legge di Riforma del Terzo Settore dovrà affrontare questo tema in modo radicale, sancendo la dignità della storia italiana e rendendo più difficile ai giudici di ogni ordine voli pindarici contro la dignità degli italiani e delle loro opere e iniziative popolari. Chi ha a cuore una economia che non sia ridotta agli interessi di qualche grembiulino europeo, deve sollecitare, come rilevato da Roberto Pasolini su queste pagine, un provvedimento di un solo articolo che chiarisca la fondamentale distinzione per l’interesse pubblico tra commerciale e a fini di lucro. E il governo mostri la sua volontà a non incarnare quel liberismo che ha già causato la gravissima crisi finanziaria che stiamo attraversando e per cui stiamo pagando anche troppo.

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