Invidiare Gesù

C'è sempre un momento durante l'anno liturgico in cui dovremmo invidiare terribilmente Gesù. Ed è oggi, la tradizionale festa dell'Esaltazione della Santa Croce. FEDERICO PICHETTO

C’è sempre un momento durante l’anno liturgico in cui dovremmo invidiare terribilmente Gesù. Questo momento coincide con il 14 settembre e la tradizionale festa dell’Esaltazione della Santa Croce. La liturgia ci fa rivivere gli ultimi istanti della vita di Cristo ed è inevitabile rendersi conto che – soprattutto in quegli attimi finali – ciò che domina l’esistenza di Gesù è il rapporto col Padre, la fiducia nei Suoi confronti. Cristo fa un’esperienza tale del rapporto col Padre da non avere nessuna esitazione nell’affidarsi totalmente a Lui: è questa l’umanità assunta e pienamente redenta dal Verbo di Dio, un’umanità in cui l’esperienza fatta, ciò che si è vissuto e giudicato, diventa autorità indiscussa per la propria vita. 

Per questo dovremmo invidiare Gesù, perché in noi – ottimisticamente potremmo dire: in molti casi – l’esperienza che facciamo non è così radicale da diventare un riferimento inequivocabile, da trasformarsi in certezza da seguire. Il caso più lampante riguarda i giudizi che formuliamo sulle cose: magari li azzardiamo, li pensiamo, ma – finché non leggiamo qualcosa di autorevole in merito o finché un altro (che per noi è un punto di confronto per la vita) non ce li ripete – noi non ci muoviamo, non vi diamo credito. È come se per vivere avessimo sempre bisogno di un capo o di un libro, di una conferma di natura diversa da quella che sorge nel nostro rapporto personale con le cose e con gli avvenimenti dell’esistenza. Ma questa non è vita, questa è una forma di schiavitù che alimenta – continuamente – dei piccoli centri di potere che, in ultima istanza, decidono continuamente che cosa sia giusto o sbagliato per il nostro cammino. Eppure io un cuore ce l’ho, una capacità di giudicare la realtà la possiedo, ma è come se fossero ormai totalmente anestetizzati dall’esigenza di un potere che li confermi.

La cosa strana è che questo dinamismo legge in profondità numerosi processi in cui è oggi immersa la società italiana: infatti, se uno guarda da un altro punto di vista coloro che chiedono la legittimità giuridica per le unioni diverse dal matrimonio tradizionale, si rende paradossalmente conto che chi dice di amarsi è così poco certo del proprio amore che ha bisogno del riconoscimento dello Stato per confermarlo; chi invece affronta la sfida dell’uscita dalla crisi come possibilità di ripresa per sé e per la sua azienda si trova spesso ad essere più attento alle misure del governo o della Bce piuttosto che alle intuizioni che nascono dalla propria esperienza lavorativa, mentre, infine, chi si trova a dover dire una parola sui grandi temi del nostro tempo si lamenta che il Papa – o chi per lui – non abbiano già fatto e detto tutto il necessario sull’argomento, arrivando al paradosso che chi dice di amare la civiltà occidentale e la libertà della Chiesa pretende che sia lo stato a tutelarle e non il proprio impegno diuturno col reale. 

È quell’impegno soltanto − infatti − che può generare una testimonianza capace di smuovere l’intimo dell’altro, comunque esso sia e a qualunque ideologia esso appartenga. La nostra vita, insomma, è un’eterna attesa che il potere la riconosca e le dia il via libera ad esistere e a sprigionarsi, al punto tale che si può tranquillamente dire che l’unico reale nemico del bene, della gioia e del vero piacere non sia tanto il peccato quanto il potere che nasce dal bisogno psichico di vivere in sintonia con qualcosa di cui − alla fine − si è semplicemente schiavi. Cristo sulla croce, al contrario, non ha potuto scommettere su niente altro che sull’esperienza che aveva fatto del bene del Padre e − su quella esperienza − si è giocato tutto, fino in fondo. Per questo Pilato, presentandolo, arriva a dire sarcasticamente (ma in modo paradossalmente autentico) “Ecce Homo”, perché in Cristo finalmente l’incapacità di Adamo di dar credito alla Presenza che lo aveva generato viene guarita e diventa libertà autentica, definitiva.

È proprio la morte di Cristo che mi ha fatto toccare con mano il fatto che io ho un valore e che tutto quello che sono e che sento è la più grande occasione della mia vita. Perché in essa è racchiusa la possibilità non di vivere in attesa di essere approvato, ma di iniziare veramente a dialogare con chi mi ha creato. Dio non è un Padre da fare contento, Dio è un Padre che ci vuole contenti, che ci vuole vivi. Pieni di quella forza che nasce sulla Croce e contagia il mondo intero mentre è ancora notte, mentre sorge il giorno di Pasqua.

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