Il lupo e l’agnello

Il dibattito sul rilancio del paese sta cominciando a confrontarsi su temi nuovi. LUCA ANTONINI ci spiega l'evoluzione che mette in soffitta i modelli liberista e statalista

Il recente intervento del ministro Tremonti sul Corriere della Sera mette in luce una prospettiva nuova, che non solo supera il sapore stantio della trita e ormai soporifera contrapposizione tra liberisti e statalisti, ma individua la reale direzione intorno alla quale potrebbe essere costruito il rilancio dell’intero Paese. L’intervento di Tremonti individua una delle più gravi patologie italiane e ne indovina la terapia. La indovina in merito al presupposto e alla sintesi: il nostro Paese si colloca al 78° posto in termini di libertà di impresa, secondo l’ultima classifica del Doing Business 2010 (World Bank).

Continuando così in un contesto globale – dove, come scrive Tremonti, la competizione non è più «solo tra imprese ma tra interi sistemi» – l’alternativa è tra declino e sviluppo. Dove il declino è destinato a consumarsi nei termini di “una dolce morte”. «Se si vuole il declino, basta quindi lasciare le cose come stanno. Se invece si vuole lo sviluppo, si deve cambiare». Il sistema italiano è infatti complicato non solo da una atavica e quasi irremovibile resistenza degli apparati e da una intricata frammentazione delle competenze (Stato, Regioni ed Enti Locali).

Il sistema italiano è affossato, anche e soprattutto, da quella radice ideologica fondamentale che Tremonti evidenzia con lucidità: l’idea base dell’antropologia negativa, stigmatizzata nella formula hobbesiana homo homini lupus, tradotta poi nell’assioma per cui “pubblico” è uguale a “morale” e “privato” è uguale a “immorale”. Se l’uomo è lupo per l’altro uomo, ci vogliono fiumi di regole per ingabbiare l’animale, e tutto si risolve in quel paradosso – lucidamente descritto da Julián Carrón proprio partendo dall’individualismo hobbesiano in un suo recente intervento – per cui le regole non bastano mai.

Un esempio per capire: quanti di noi hanno fatto l’esperienza di scoprire che nel nostro Paese per ottenere una concessione edilizia occorre praticamente un anno, e poi sono rimasti di sasso quando sono venuti a sapere che in questo stesso Paese esistono 2 milioni di case fantasma, fatte emergere dalla mappatura aerea effettuata della Agenzia del Territorio, confrontando poi i dati catastali.

L’esempio è emblematico: si impongono pesantissimi controlli ex ante, realizzati appunto con fiumi di regole e procedure, che bloccano gli onesti; poi i controlli ex post sono quasi nulli, al punto che le case abusive hanno raggiunto quella dimensione. La nuova prospettiva che propone Tremonti è quella di superare questa assurdità, di superarla alla radice, al cuore dell’ordinamento, con una riforma costituzionale che segni l’abbandono dell’homo homini lupus a favore di una antropologia positiva, basata sulla socialità insita nella natura umana, basata in fondo, quindi, sul riconoscimento di quella civitas primaria di cui parla Sant’Agostino.

 

È la stessa radice che muove il modello di Big Society proposto da Cameron, costruito su una doppia devoluzione (dal centro alla periferia e dalla pubblica amministrazione ai corpi intermedi), e che ha conquistato il dibattito pubblico europeo. Si tratta di una novità che – per certi aspetti – si profila anche oltre oceano, dove si parla di un Philantropic Big Bang, sia per il recente sviluppo del sistema Non Profit sia per le clamorose proposte di alcuni miliardiari americani di devolvere la maggior parte dei propri patrimoni a favore di opere sociali (l’iniziativa Giving Pledge). È un nuovo fermento che è stato affermato anche con decisione nel Libro Bianco sul Welfare del ministro Sacconi che ha radicalmente obiettato alle logiche del Leviatano, lanciando coraggiosamente la sfida di ricostruire i modelli sociali proprio sul presupposto di un’antropologia positiva.

 

Questi sono i programmi veramente riformisti per il nostro Paese: rappresentano la rivincita in chiave moderna di una tradizione di sussidiarietà scritta nel Dna della nostra storia, al punto da costituirne il segreto del suo sviluppo. Una tradizione che è stata combattuta in nome di un lusso ideologico che oggi, in tempi di crisi, non possiamo più permetterci. Quel lusso ideologico, per il quale l’opera di un Don Bosco – che tirò fuori centomila ragazzi dalla strada – avrebbe potuto svolgerla meglio un assistente sociale, peraltro trova ora anche nel federalismo fiscale un’importante occasione di ripensamento.

L’antidoto al conflitto, in fondo, è sempre stato ed è una visione generale: Ruini, presidente dell’assemblea costituente, nella storica seduta del 22 dicembre 1947 richiamava al fatto che “l’esigenza dell’opera collettiva, della collaborazione di tutti, in democrazia è l’inevitabile, ed è la forza stessa della democrazia” e che “la Costituzione, come ogni opera collettiva, non può che essere una transazione, come è tutta la storia”.

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