Sarebbe ingeneroso e sciocco passare sotto silenzio il valore dello spettacolo di Roberto Benigni sulla Costituzione, andato in onda sulla Rai tre sere fa. Tutte le ultime performances dell’attore pratese, a partire dalla lettura della Divina Commedia, sono innanzitutto il frutto di un enorme lavoro, così come l’apparente fluidità del discorso rivela un lavorìo costruttivo veramente esemplare. Insomma, Roberto Benigni, piaccia o no, è un esempio di serietà per tutti gli artisti.
Tuttavia è proprio su quel piaccia o no che vorrei soffermare la mia attenzione. Perché il modo di presentarci l’avvenimento da parte della Rai e della stragrande maggioranza della stampa nazionale non ha lasciato il minimo spiraglio a una discussione su questo punto.
Eppure io credo che, fatti salvi i toni un po’ tromboneschi (inevitabili in un format come questo), le parole di Benigni lasciassero lo spazio alla discussione, e il fatto che l’attore abbia fatto prevalere il tono di un’adesione acritica e adorante non significa che, nel laboratorio da cui è uscito il testo dello spettacolo, i temi non siano stati precisati con grande attenzione.
Faccio solo un esempio. Quando, con accento genuflesso, Benigni loda la Costituzione perché invita a fare a differenza dei Dieci Comandamenti, sei dei quali si esprimono in forma di divieto – quindi non fare – ci sarebbe perlomeno da discutere, così, in linea di principio, senza la pretesa di entrare nello specifico, se sia più oppressivo un potere che ingiunge di fare oppure un potere che vieta di fare.
Io per esempio trovo che, in linea di massima, un potere che vieta sia meno dannoso di un potere fatto “di prescrizioni e di decreti”. Preferisco trovarmi davanti un ostacolo e dover decidere se aggirarlo, abbatterlo o tornare sui miei passi, piuttosto che essere incanalato in un comportamento comune che spesso non arriva a diventare personale. Preferisco prendere una legnata per qualcosa che ho pensato io, piuttosto che vivere nell’anonimato del Pensiero Unico.
Con questo, non intendo criticare la nostra Costituzione, che è il frutto mirabile del più grande sforzo comune compiuto da coloro che avevano ereditato l’Italia post-bellica. Intendo solo affermare un margine di discutibilità, senza cui non è possibile nessuna crescita umana. Per poter crescere, infatti, io devo essere corretto, ma per essere corretto devo avere pensato qualcosa, o meglio: devo averla pensata io.
Nel dopo-spettacolo, ho sentito qualcuno (credo Vincenzo Mollica) dire che “una cosa come questa non deve essere commentata ma solo applaudita”. Quando qualcuno dice così, di colpo smetto di applaudire, anche se ne avevo l’intenzione. E’ quel solo che mi fa male, che ci fa male. E questo Benigni lo sa benissimo, perché sa che i più grandi capolavori hanno spesso subito fischi e insulti. E sa che l’unanimità è sempre pericolosa, anche quando si ha la sensazione di stare dalla parte del bene.
Tutto ciò che non diventa mio non esiste veramente. Mettere al mondo un figlio e scambiarlo per una proprietà personale è facile, mentre far sì che quel figlio diventi davvero tuo figlio è difficile, perché richiede, ora dopo ora, l’accettazione della sua diversità imprevedibile. Solo la diversità (mantenuta e rispettata nella sua diversità) diventa davvero mia.
Un’opera d’arte, un poema, uno spettacolo sono importanti perché sono sempre discutibili. I romanzi fondamentali non sono tanto quelli in cui ci siamo immedesimati, ma quelli che ci hanno rivelato qualcosa di nuovo di noi stessi.
I canoni sono importanti, però a me dispiace che, per esempio, un grande critico non scriva un’enorme, monumentale stroncatura della Divina Commedia, così da obbligare un critico ancora più grande a ricostruirne l’elogio a partire dalle macerie lasciate da chi lo ha preceduto.
Insomma: applaudiamo, certo, ma continuiamo a discutere e a commentare, mettendo in campo ciò che pensiamo veramente, pronti a cedere le nostre ragioni ma solo davanti a ragioni più forti. E non allineiamoci mai senza sapere con buona approssimazione a cosa stiamo rinunciando.