Altroché finanza e conti pubblici. L’uscita del Regno Unito dall’Unione europea è un ulteriore segno della fragilità del nostro continente che, senza paura di esagerare, possiamo pensare adesso un po’ più esposto a “pezzi di terza guerra mondiale”, come li chiama papa Francesco. E’ importante ricordare che l’idea ispiratrice di Europa unita, nata nella mente e nel cuore di molti democratici sul finire della Seconda guerra mondiale, era la pace: mai più guerre tra nazioni europee. A dirla tutta, il primo e più importante risultato dell’Unione è proprio questo: settant’anni senza guerre, un risultato sancito dal premio Nobel per la pace ricevuto nel 2012. Non è un caso che i due episodi di guerra sul continente siano avvenuti nell’ex Jugoslavia e in Ucraina, cioè fuori dall’Unione, dove invece hanno dominato e dominano gli interessi divergenti di Russia e Stati Uniti. Con la Brexit nessuno ragionevolmente ipotizza che la Gran Bretagna si metta a fare la guerra all’Europa, ma quando vengono a mancare momenti istituzionali di dibattito e si acuiscono le divergenze economiche aumentano a dismisura i rischi di conflitto. “La guerra già c’è in Europa” ha detto Bergoglio tornando dal suo viaggio in Armenia, con il consueto realismo che lo contraddistingue. Inoltre, i Paesi europei, senza vincoli comunitari, sarebbero più inclini a conflitti per interposta persona per motivi economici e strategici in altre aree del mondo.
Ma senza aspettare futuri venti di guerra sono già realtà tristi il nazionalismo risorgente di marca pressappochista, la paura del diverso e la xenofobia che hanno preso piede non solo nel Regno Unito, ma anche in molti Paesi dell’Est Europa. E non aiuta la pochezza ideale di troppi opinion leader che sentono l’aspirazione all’unità e allo sviluppo per tutti come valori astratti, così come non aiuta l’asservimento delle classi dirigenti europee a quell’“ordoliberismo” di cui parla spesso Giulio Sapelli su queste pagine.
Allora non c’è rimedio? Tutt’altro: proprio Brexit potrebbe essere una grande occasione se ci si libera del problema di chi e che cosa ha sbagliato e si cerca di riscoprire cosa può assicurare la nostra convivenza. Perché è a questo che servono i momenti di difficoltà. Infatti, come dice Julián Carrón nel libro La Bellezza disarmata, “la natura della crisi dell’Europa non è prima di tutto economica, riguarda i fondamenti del vivere… La riduzione del desiderio, cioè del punto d’appoggio che rende possibile l’esperienza della libertà, della liberazione dalle paure, e che consente alla ragione di guardare il reale in modo tale che non ci soffochi”.
Ci vorrebbe un impegno educativo diffuso che risvegli gli ideali di pace, sviluppo e uguaglianza. E’ un lavoro di lungo periodo che i governanti possono facilitare se ricominciano a concepire l’Unione Europea come una unità di popoli e a farsi carico dei problemi della disoccupazione, dell’istruzione dei giovani, della difficoltà a vivere della fasce deboli, dell’integrazione di etnie diverse.
E’ un cambiamento necessario, che non nasce da teorie economiche, ma che è destinato ad avere conseguenze immediate anche sull’economia, oltre che sulla politica dell’Unione, che deve comunque ripensarsi. Come ha detto papa Francesco sempre di ritorno dall’Armenia: “il passo che la Ue deve dare per ritrovare la forza delle sue radici è un passo di creatività e anche di sana “disunione”, cioè dare più indipendenza e più libertà ai paesi dell’Unione (…) essere creativi nei posti di lavoro e nell’economia”. Più libertà e quindi più responsabilità nel concepire il progetto comune, di cui si spera, l’Europa non farà mai a meno.
Responsabilità della politica anche nel superare quell’ordoliberismo imposto come una cappa mortale, e nel ricominciare, magari come fu fatto dopo la Seconda guerra mondiale, con un Piano Marshall, costituito di massicci investimenti pubblici in aiuto alla vita concreta di uomini, imprese, realtà sociali.
Perché non pensare oggi a qualcosa di analogo? Perché accada occorre che, come fecero i padri fondatori, l’economia venga messa a servizio degli ideali di pace e sviluppo e non, come sta avvenendo adesso, che gli ideali siano subordinati all’economia.