Da giorni il caso Facebook-Cambridge Analytica occupa le cronache e alimenta dibattiti, suscitando reazioni, timori e riflessioni. Riassumendo in breve la vicenda, che è comunque destinata a rimanere ancora a lungo sotto i riflettori per le sue implicazioni, il gigante dei social e` accusato di aver permesso a un soggetto esterno, la Cambridge Analytica, società specializzata in analisi dei dati al servizio di campagne elettorali, di carpire informazioni su 50 milioni di utenti, dati che non avrebbero potuto essere ceduti e nemmeno utilizzati. Ancora più grave il fatto che, pur essendo venuto a conoscenza dello sfruttamento illecito, il colosso guidato da Mark Zuckerberg si è ben guardato dall’informare gli utenti della violazione subita.
Da quel momento Facebook e Zuckerberg sono finiti nell’occhio del ciclone: calo in Borsa del titolo, polemiche a livello internazionale, richieste di chiarimenti dall’Europa agli Stati Uniti, un lungo “mea culpa” del fondatore del social network e la campagna virale #cancellafacebook.
Come sul Sussidiario ha già opportunamente ricordato Sergio Luciano, il caso Facebook-Cambridge Analytica ha portato clamorosamente e fragorosamente alla ribalta un dato di fatto noto agli addetti ai lavori e non: “per le società che, come Facebook e Twitter, gestiscono i social media, il prodotto siamo noi, con i nostri gusti, le nostre abitudini, i fatti nostri. Loro ce li carpiscono, nel 99 per cento dei casi, dopo averci fatto acconsentire al furto, e poi usandoli per scopi che se ci fossero stati prospettati ci avrebbero dissuaso dall’acconsentire (…) Di fronte a questo episodio emerge in tutta la sua gravità il pericolo di un uso illecito dei dati raccolti dai social. Dati di cui peraltro già l’uso strettamente pubblicitario è già un abuso, ancorché consentito dalle vittime…”. Il più delle volte, volendo essere “garantisti” (ma qui è difficile esserlo), in maniera inconsapevole, ma chissà quante volte (sempre?) le tecniche messe in campo sono poco trasparenti, se non addirittura subdole?
In effetti, chi di noi si preoccupa, ogniqualvolta arriva la notifica di un aggiornamento sul proprio smartphone, di leggerne le condizioni, che magari nascondono alcune autorizzazioni non gradite? È un po’ quello che succede quando si va a firmare il contratto di un prodotto finanziario. Il “calepino” delle condizioni è irto di disposizioni, scritte fitte fitte in un corpo lillipuziano, difficile da leggere e da capire, specie dai risparmiatori poco smaliziati ed evoluti. Non a caso, dopo gli ultimi scandali, si è levata alta la voce per rendere più trasparenti i prospetti dei prodotti bancari e finanziari.
Comunque, nel 2012, la stessa Facebook aveva già condotto un esperimento di “contagio emotivo” su centinaia di migliaia di suoi utenti, tenuti all’oscuro su quanto stava succedendo mentre si scambiavano foto, messaggi, like. Un esperimento allora foriero di quante incognite e pericoli potesse nascondere un’indagine psicometrica, cioè un monitoraggio accurato e approfondito, sulle abitudini e sui gusti dei suoi utenti. Sono passati sei anni da allora, e sappiamo tutti con quale velocità supersonica avanzi lo sviluppo degli algoritmi. Di certo, da quel momento, la privacy ha perso la sua battaglia con i giganti del web, lasciando loro campo aperto, in una sorta di Far West. È un po’ quello che succede nel doping in ambito sportivo: quando l’antidoping scopre una sostanza stimolante, più che celebrare la vittoria conseguita, deve già pensare a inseguire i nuovi ritrovati messi a punto dall’industria del doping.
Secondo il garante della privacy Ue, per ogni visita a un sito web ci sono 100 attori esterni che raccolgono i nostri dati, con tecniche intrusive molto raffinate. Ma non è solo un problema di privacy e di regole a tutela della riservatezza. La questione sollevata dal caso Facebook-Cambridge Analytica è un fatto grave, immorale. È un rapporto in cui ci si è presi gioco dell’inviolabilità delle persone, si è mancato loro di rispetto, si è tradita la loro fiducia. Ai social network non abbiamo affidato le chiavi di casa nostra: eravamo convinti noi di entrare nel loro attico spazioso, senza confini, con la possibilità di incontrare tantissimi “amici” con cui chiacchierare, amabilmente, del più e del meno. Mettendoci in gioco, magari a nudo, come si fa in ogni rapporto di amicizia. Ma in questo meraviglioso open space virtuale il “padrone di casa”, a nostra insaputa o tutt’al più accennandone di sfuggita e magari giustificandolo per ragioni di sicurezza, ha via via nel tempo sistemato microspie sempre più sofisticate che ci riprendono mentre sorseggiamo l’aperitivo che più ci piace, sfogliamo il libro dell’autore preferito, parliamo dell’auto che abbiamo appena acquistato, discutiamo di politica, confessiamo le nostre debolezze, magagne, passioni. Dati sensibili, intimi, personali che vengono catturati, monitorati, vivisezionati.
Da chi? Non solo: questi dati vengono venduti. Chi sono i possibili acquirenti? Quali società, quali business, quali “occhi” rapaci possono spiarci mentre ci confidiamo con un amico lontano, con un collega preoccupato o mentre cerchiamo innocuamente qualche notizia, qualche informazione utile su internet? È giusto, è morale che ciò possa accadere?
Nel film The Circle, che racconta una società ultramoderna e distopica in cui le persone annullano la propria sfera privata per diventare “trasparenti” agli altri senza alcun filtro, tutto viene registrato e mostrato al pubblico, in un parossistico trionfo di “like” ed “engagement”. La protagonista, Mae, arriva addirittura a offrirsi volontaria per un progetto al limite del surreale: grazie a una mini-telecamera, condividerà con il resto del mondo ogni attimo della sua giornata in nome della trasparenza assoluta. È il motto stesso del fondatore: “Conoscere è bene, ma conoscere tutto è meglio”. Suadente, come la mela del serpente nel paradiso terrestre. Ma anche in The Circle la “tentazione”, l’inganno, la seduzione, hanno un loro lato oscuro (gli inconfessabili affari milionari dei proprietari) e portano pure a un epilogo tragico (la morte di un amico di Mae).
Che tristezza sapere che ciascuno di noi, agli occhi di Facebook, vale quasi 9 dollari. Ma che soddisfazione per Zuckerberg: grazie ai profili di “tutti noi frequentatori del social” è arrivato a capitalizzare in Borsa più di 530 miliardi di dollari.