Alcuni fatti successi negli ultimi giorni mi inducono a tornare sul tema di lunedì scorso. Prendendo spunto da un discorso di Benedetto XVI, dicevo che bisogna avere il coraggio di «stracciare» le parole, udite e dette, che inquinano e intossicano le nostre giornate.
L’aggressione a Berlusconi e gli infiniti commenti che ne sono seguiti hanno messo in risalto che nella nostra convivenza civile c’è proprio questo grave pericolo: usare le parole come armi. C’è un modo di discutere che parte dalla convinzione, più o meno cosciente, che l’interlocutore sia un nemico da distruggere; anzitutto con l’uso sconsiderato degli epiteti, degli aggettivi, delle insinuazioni.
Da cattedre, pulpiti, scranni e pagine di giornale si è perciò levata la pressante richiesta di «abbassare i toni». Niente di più ragionevole e necessario. Ma come? Qui si inserisce un piccolo episodio privato, capitatomi qualche giorno fa. Devo prendere il filobus numero 91, che percorre la circonvallazione di Milano. Il traffico prenatalizio rende difficile la circolazione e il mezzo pubblico arriva, già pieno, in sensibile ritardo.
Saliamo. Siamo molto stretti. A un certo punto l’autista, con un tono un po’ infastidito, invita noi che siamo appena saliti ad andare un po’ più avanti. Subito un mio vicino risponde piccato che non è possibile, è tutto pieno, mandino più autobus, è una vergogna. Nasce un battibecco tra passeggero e autista, con contorno di parolacce e insulti. Fortunatamente la discussione non degenera; qualcuno dal fondo dice di smetterla e si va avanti. Un signore accanto a me commenta: «È la crisi; ci ritroviamo tutti più tesi». E la signora che stava con lui: «Siamo sull’orlo della guerra civile». Proprio così ha detto: guerra civile. L’altro annuiva.
Fatta la tara della tensione del momento, dell’agitazione per cui le parole ti escono di bocca senza – appunto – troppo pensarci, resta il fatto che la percezione suscitata dal piccolo scontro in filobus ha fatto pensare addirittura alla guerra civile. Significa che un certo clima di violenza, cui le parole danno la miccia per esplosioni incontrollate, è l’aria che si respira. Significa che uno ha paura, perché già considera quelli che popolano la sua stessa civis, la stessa città, come potenziali nemici, schierati in campi avversi, pronti a darsi battaglia, passando dalle parole ai fatti.
Qui non è più questione solo di abbassare i toni; siamo di fronte a un clima di convivenza così deteriorato che un battibecco in filobus ti fa pensare alla guerra civile. E l’origine di questo clima è la paura. Rintanarsi nel proprio guscio individualistico non la elimina. Di fronte alla paura sei impotente; e anche abbassare i toni non riesce ad illuminare la zona buia dove sorgono e ingrossano i suoi fantasmi. Ci vuole ben altro.
Ne I due orfani Giovanni Pascoli narra di due fratellini a letto in una notte di temporale che si scambiano domande affannate sui pericoli da cui si sentono minacciati. Cercano di rassicurarsi vicendevolmente, ma due impotenze non fanno una forza. Certo, ora che la madre è morta e loro sono soli, cercano di litigare di meno. Ma sanno bene che ciò non basta a togliere la paura, che potrà facilmente degenerare in violenza.
Prima, invece, ogni dissapore era ricomposto dal perdono materno. Di questo hanno bisogno: di qualcuno che, come dicono le ultime parole della poesia, «ci perdoni». È qui la forza che libera dalla paura e consente di non essere violenti. Chi lo spiegherà ai due signori del filobus?