Un vento ancora leggero di ripresa inizia a sospingere la nave dell’occupazione italiana, ha notato sul Sussidiario l’economista Mario Mezzanzanica, ma i giovani restano ancora fermi sulla banchina, in attesa di imbarco. A bordo i posti rimangono per lo più occupati dai lavoratori più anziani, mentre la passerella dell’anticipo pensionistico (Ape), che potrebbe cominciare a sbarcarne alcuni, tarda a essere gettata dal governo.
A marzo il tasso di disoccupazione complessivo è intanto rimasto attestato all’11,7%, in leggero peggioramento sul mese precedente e sostanzialmente stabile da più di un anno. Per i più giovani (15-24 anni) l’indicatore resta oltre ogni linea rossa (35%), anche se si è ridotto di 7 punti percentuali tra il 2015 e il 2017. Immobile al 18% da due anni, invece, è la fascia 25-34 anni mentre si confermano gli spunti positivi delle “pantere grigie”: gli over 50 più inseriti e finora più tutelati.
Nell’intrico delle percentuali resta comunque intatta – ha avvertito Mezzanzanica – l’esigenza-Paese di “far partecipare adeguatamente al mercato del lavoro i giovani che rappresentano la vera prospettiva per il futuro del nostro sistema economico”. E per questo non è più possibile eludere “politiche di riduzione del costo del lavoro rivolte alle aziende virtuose che investono in innovazione e in sviluppo del capitale umano”. Riflessione di assoluta attualità, quando le cronache registrano ritardi nella partenza operativa dell’Ape: la nuova corsia di anticipo pensionistico prevista dalla legge di stabilità 2017, già rinviata di un anno rispetto ai primi annunci del ministero del Welfare.
L’Ape era stata concepita dal governo Renzi nella cornice piena del Jobs Act: la ri-flessibilizzazione delle uscite dal lavoro rispetto alla riforma Fornero avrebbe dovuto funzionare simmetricamente alla nuova elasticità contrattuale in entrata al fine di stimolare l’occupazione giovanile. Dall’1 maggio scorso l’Ape avrebbe dovuto iniziare a “sbarcare” lavoratori seniores con agevolazioni e incentivi a lasciare il posto di lavoro già a 63 anni rispetto ai 66 e 7 mesi fissati al rialzo dal pacchetto Fornero.
Battistrada avrebbero dovuto essere – già entro fine 2017 – 35mila lavoratori appartenenti a varie categorie deboli (impieghi usuranti, cassintegrati, etc): per loro era prevista un’Ape agevolata, a carico del bilancio pubblico, ma utile per rodare lo strumento. Il decreto applicativo, varato con qualche ritardo dalla Presidenza del Consiglio, si è infine arenato su una serie di rilievi del Consiglio di Stato. Ora il governo sta cercando di gestire lo slittamento, ma tuttora senza scadenze certe. E mentre ormai politica, attività amministrativa, parti sociali vengono risucchiate dalla campagna elettorale, resta in stand by anche l’Ape volontaria: il canale principale, il più ambizioso e impegnativo.
Relativamente costosa per il lavoratore, l’Ape rappresenta una reale scommessa di politica del lavoro: sul capacità dell’intera Azienda-Italia (lavoratori, imprese, organizzazioni sindacali, enti locali, corpi intermedi etc) di cambiare in squadra logiche e strumenti del mercato del lavoro. L’attivazione del circuito completo disegnato dal Jobs Act (ingressi a tutele crescenti, uscite flessibili, politiche attive del lavoro) non guarda alla semplice sostituzione aritmetica di “padri” con “figli” su un numero dato di posti di lavoro. Punta invece alla creazione di un surplus di valore “di sistema”: anzitutto sul terreno critico della produttività, ormai considerata in deficit strutturale nel sistema-Paese.
Lavoratori anziani in pensione anticipata con qualche sacrificio (ma in teoria non relegati al ruolo di “pensionati”) significa avviare una review delle grandezze macroeconomiche che un’Italia dimagrita del 10% di Pil negli ultimi nove anni non può più eludere. Lavoratori più giovani a bordo significa alimentare il motore economico del Paese con una benzina meno costosa e più ricca di ottani, anzitutto in termini di alfabetizzazione digitale. Vuol dire immettere capitale umano che vale il doppio: quello che deve reggere a medio-lungo termine la competitività italiana, una risorsa rinnovabile, capace di imparare costantemente a lavorare.
Se l’Ape non parte non è possibile addossare la responsabilità ai soliti magistrati amministrativi. L’Ape non parte perché né il governo, né le forze politiche, né le parti sociali riescono a compiere assieme un passo certamente faticoso su un terreno nuovo. Il terreno vecchio, intanto, resta quello descritto dai dati Istat del marzo 2017.