L’inizio del terzo anno del Califfato islamico è stato contrassegnato da un’ondata di attentati. Un kamikaze si è fatto esplodere anche nella città santa di Medina. L’Isis colpisce le sue stesse origini, il sunnismo wahabita. I seguaci della bandiera nera hanno trasformato il mese del Ramadan in un bagno di sangue a Baghdad (più di 300 morti in pochi giorni), all’aeroporto di Istanbul e a Dacca (Bangladesh). È la risposta ai successi militari nella lotta contro il terrorismo.
Daesh ha perso Fallujah, Ramadi, Palmira, Tikrit e Kobanê. Secondo alcune stime, ha perso il 47% del territorio che controllava in Iraq e il 20% di quello dominato in Siria. La guerra, con tutte le sue contraddizioni e i suoi limiti, lentamente, produce risultati. La liberazione del territorio non è tutto però. La popolazione sunnita della Siria e dell’Iraq può vedere i liberatori come dei conquistatori più crudeli dei precedenti. Il governo iracheno è tutt’altro che stabile. La Siria rimane la terra delle mille guerre in cui tutti combattono contro tutti. Ma la svolta che la Turchia ha dato alla sua politica estera – Erdogan si reinventa sempre -, la fine della sua ambiguità riguardo i jihadisti e la decisione di tagliare le sue fonti di finanziamento sono stati fattori decisivi. Ora Daesh sembra voler essere di nuovo al Qaeda e colpire ovunque: gli infedeli, gli sciiti e i sunniti. Ci sarà ancora tanta sofferenza.
Lo Stato islamico non è mai stato né totalmente Stato, né del tutto islamico. La sconfitta militare e la debolezza istituzionale fanno pensare a un sistema di terrore più che a una struttura amministrativa classica. Ci sarebbe anche un errore fondamentale nel proposito di Al Zarqawi, padre di Daesh, che ha annunciato che “si trovava in Iraq per dare una patria all’Islam e uno Stato al Corano”. Lo scopo di ricostruire il Califfato – perso “solo” 100 anni fa – attraverso uno Stato-nazione simile a quello degli occidentali sarebbe in contrasto con la legge islamica classica.
È la tesi che sostiene Wael Hallaq nel suo libro “Lo Stato impossibile”. Tesi interessante che si aggiunge a quella di altri pensatori per cui il fenomeno dello jihadismo e il tentativo di creare un neo-Califfato non sono una logica evoluzione della religiosità musulmana e della dottrina coranica, ma piuttosto il risultato di uno scontro: quello tra il nichilismo e il pensiero politico occidentali, da una parte, e una modernità islamica che non ha risolto le sue contraddizioni, dall’altra. Per completare il quadro dei fattori che spiegano quello che è successo finora ci sarebbero da aggiungere le ambizioni egemoniche di Iran e Arabia Saudita e gli errori commessi durante la Seconda guerra del Golfo, ora ricordati dal Rapporto Chilcot.
In ogni caso, questi due anni sanguinosi di Califfato, con un prezzo molto alto, hanno messo buona parte dell’Islam di fronte alle proprie contraddizioni, sia politicamente che culturalmente. Non sembra sufficiente condannare i jihadisti come cattivi musulmani. L’arco temporale cominciato con la svolta che Sadat diede alla sua politica negli anni ’70 è giunto al termine. Il Presidente egiziano abbandonò la strada delle rivoluzioni liberali di inizio XX secolo e di quelle nazionaliste degli anni ’50. Il wahabismo politico, con il suo uso ideologico dell’Islam, ha da allora guadagnato terreno fino a creare un mostro totalitario che divora se stesso. Il conflitto non si può risolvere solamente con un equilibrio di poteri tra sciismo (Iran) e sunnismo (Arabia Saudita) o con una ripartizione territoriale che ricrei, uno secolo dopo, l’accordo Sykes-Picot. Non basta creare Stati monoconfessionali secondo la formula di Kissinger.
Daesh è una provocazione per il mondo islamico. I suoi eccessi sono un invito a recuperare un’esegesi storica del Corano, che non è nuova nella sua tradizione, per promuovere una comprensione della sharia come riferimento etico e non come legge positiva (fenomeno più recente), per accettare certe distinzioni tra politica e religione, che nemmeno sono estranee alla storia generata da Maometto. E, soprattutto, per sviluppare una tutela delle libertà che vada al di là delle dichiarazioni formali. Nel campo teorico sono stati importanti i pronunciamenti di Al Azhar nel 2012 e la Dichiarazione di Marrakech del 2016. Specialmente quest’ultima implica un passo avanti perché invita a esplorare il concetto di cittadinanza. Ma questo progresso non sarà solido fino a quando questi testi non saranno diffusi e finché non sarà riconosciuta la libertà di convertirsi. Senza di essa, infatti, non c’è vera libertà nell’Islam. Può essere un frutto miracoloso che ci verrà regalato dai martiri della guerra e della persecuzione, martiri cristiani e musulmani.