I nuovi (giovani) orfani

Le cifre leggermente positive che segnalano un lieve recupero sul fronte dell’occupazione non sembrano riguardare quanti hanno un’età compresa tra i 15 ed i 24 anni. SALVATORE ABBRUZZESE

Le cifre leggermente positive che segnalano un lieve recupero sul fronte dell’occupazione non sembrano riguardare quanti hanno un’età compresa tra i 15 ed i 24 anni. Il tasso di disoccupazione tra i ragazzi e le ragazze di questa fascia d’età è pari al 44,2%. In pratica, se pure esistono dei cenni di non aggravamento della crisi sul piano del mercato del lavoro, cenni che autorizzano a ben sperare – la disoccupazione generale è infatti in lieve arretramento – questi non scalfiscono la palude, oramai periferica e sempre più isolata dell’universo giovanile. Secondo gli ultimi dati dell’Istat nel mese di agosto di quest’anno, sono oramai 710mila, i ragazzi e le ragazze tra i 15 ed i 24 anni a risultare in cerca di occupazione: si tratta di una cifra che è superiore di tremila unità rispetto al precedente mese di luglio, e di 38mila unità in più rispetto all’agosto dello scorso anno. 

Dinanzi a questo gruppo che cerca un lavoro senza trovarlo, c’è il mondo parallelo dei loro coetanei che lavorano: 895mila (33mila in meno rispetto al mese di luglio); ma c’è anche il più vasto arcipelago degli inattivi: 4 milioni e 372mila. Sono 28mila in più rispetto al mese precedente. Si tratta in parte, per una buona metà, di studenti ma anche di persone che non studiano né cercano più un lavoro.

Quando si è dinanzi a simile cifre non c’è solo un evidente problema occupazionale; accanto a questo si profila, in modo sempre più chiaro, un problema di lealtà, di compagnia, di qualità del legame sociale. 

Per la più vasta società, quella che è saldamente insediata nelle aree più stabili del mercato del lavoro, si tratta certamente di revisionare in modo consistente privilegi e rendite di posizione. Si tratta di prendere atto di quanto tanto i primi quanto le seconde, di fatto, abbiano finito con il condannare un’intera generazione a restare “al di fuori della città”, lasciandola in una sorta di limbo lavorativo, segnato dalla costante indeterminatezza occupazionale e dall’altrettanto inevitabile inconsistenza civile. 

Ma c’è anche un problema di percorso che occorre saper intraprendere. Per quanti cercano un lavoro si tratta, in primo luogo, di un percorso di crescita professionale. Si tratta di un cammino che transita attraverso esperienze lavorative professionalizzanti, apprendimento di lingue e mansioni, disponibilità a lavorare in contesti nuovi e diversi – come tanti ragazzi e ragazze stanno già facendo – spesso anche al di fuori dei confini nazionali. 

Ma, accanto a questo, si tratta anche della costruzione di un percorso personale dove, assieme alla curiosità ed al desiderio, c’è anche la volontà di farsi dirigere, di lasciarsi formare, nella lucida coscienza dei propri limiti e della chiara disponibilità a superarli.  

Un tale percorso ha allora, come indispensabile premessa, una disponibilità ed una volontà di recuperare desideri e volontà operative. Si tratta qui di un cammino che procede attraverso una riconquista di ciò che si è, delle qualità che si posseggono, del deposito di capacità dalle quali si proviene e di cui si è eredi. Non c’è possibilità reale di sviluppo se non c’è una consapevolezza di ciò di cui si è fatti e che, impegnandosi, si può arrivare a far valere.

Ma è proprio questo secondo percorso che quanti hanno tra i 15 ed i 24 anni non possono fare da soli. Non possono realizzarlo nell’indifferenza di realtà professionali costantemente tese alla difesa delle proprie trincee e nella mancata presenza di educatori disponibili a formare e ad educare. 

Il problema dell’occupazione giovanile diventa qui allora quello di una società che deve saper tornare ad educare un universo alla deriva, che deve essere capace di risituarsi al cospetto di una generazione di fatto abbandonata dinanzi ad un mercato sempre più immobile, sempre più costellato di rinunce e di disincanto, anziché segnato da opportunità di formazione e di crescita. 

Occorre recuperare la sensibilità che insegna e spiega come il lavoro sia il risultato di un percorso che si costruisce, non l’esito di un’occasione, sia lo sbocco di un’opera di apprendimento e di maturazione e non l’imprevisto di un’opportunità estemporanea affidata alla sorte. Costruire questo percorso, impegnarsi costantemente in una formazione sempre più adeguata delle proprie capacità professionali, costituisce il tassello indispensabile di un “saper fare” che non è più rinviabile.

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