La “Bari Policy Agenda” aperta dal ministro dell’Economia Piercarlo Padoan sul tavolo del G7 finanziario – il più importante nel conto alla rovescia verso il summit dei capi di Stato a Taormina – è stata firmata da tutti i suoi colleghi: compreso il superfalco tedesco Wofgang Schauble e il neo-segreterio al Tesoro Usa. Steve Mnuchin – in attesa dello sbarco in Italia di Donald Trump – ha detto che c’è ancora molto lavoro da fare attorno alla “crescita inclusiva” disegnata dal Manifesto di Bari: ma non ha esitato a porre la sua sigla – una delle sue prime in calce a un documento di diplomazia geoeconomica – a un testo ragionevole sul libero commercio internazionale.
Il Manifesto di Bari è imperniato su una dichiarazione di principio netta e forte sull’opportunità che i Paesi membri del G7 perseguano politiche economiche volte a ridurre le diseguaglianze: e nel 2017 è assai meno scontato che in passato, allorché la Ue ha perso la Gran Bretagna e vuol riscrivere i Trattati; o quando Cina e Usa stanno cercando un complesso riequilibrio commerciale. Ma non è banale soprattutto quando vaste aree e soprattutto lunghe frontiere del pianeta sono sotto tensione o pressione: l’Africa e il Medio Oriente verso l’Europa e questa verso la Russia, il Sud America verso il Nord senza dimenticare i confini d’acqua fra i giganti asiatici o i loro satelliti.
Meno che mai è stata routine che i ministri finanziari dei Sette Grandi abbiano declinato il Manifesto al futuro prossimo su terreni concreti e rilevanti. La cosiddetta web-tax è stata certamente il tema più complesso e ambizioso dalla dichiarazione finale. L’obiettivo è quello di sottoporre la web-economy (per sua natura sovrannazionale e spesso apolide) a una tassazione equa, tenuto conto del fatturato ormai enorme e tuttora in rapida crescita. Nella Bari Policy Agenda il G7 ha elaborato un consenso importante attorno a una “web tax internazionale” che appare nondimeno una “raccolta di fondi” finalizzata alla crescita inclusiva, dunque allo sviluppo delle tecnologie soprattutto sul versante dell’accesso alla Rete. Una grande scommessa: la “Tobin tax” non è mai riuscita ad affermarsi perché concepita come tributo punitivo della finanza globale, non come auto-investimento dei mercati finanziari sulla loro crescita sostenibile.
Sotto questo profilo il Manifesto di Bari ha segnalato una svolta culturale in incubazione tutt’altro che superficiale. E non sorprende che sia stato redatto nel Castello Svevo del capoluogo pugliese, mentre l’intera città (soprattutto nelle aule dell’Università Aldo Moro) ha partecipato con un fitto calendario di appuntamenti di studio. “Il Sud è un laboratorio e una risorsa, non soltanto per l’Italia” ha sottolineato il rettore, l’economista Antonio Felice Uricchio, tirando le fila di quattro workshop internazionali costruiti attorno all’idea-forza del Manifesto: non c’è contraddizione alcuna – anzi – nel discutere delle frontiere cui tende l’economia digitale e di quelle attraversate ogni giorno dai barconi di migranti. Un’ateneo come quello barese ha trovato la sua originalità strategica proprio nel produrre advanced education sia competitiva sia accessibile (anche ai migranti): senza chiudersi a nessun punto cardinale, considerando egualmente risorsa sia uno studente profugo sia un ricercatore in visita da un centro d’eccellenza. E quella ai Sassi di Matera – capitale della Cultura europea nel 2019 – non è stata solo una gita turistica: i ministri del G7 hanno visto in azione da vicino il Sud d’Italia, un vero “Sud globale”. Del Manifesto di Bari sentiremo ancora parlare. E anche del Sud italiano.