“Oggi è il Giorno della Terra, il giorno patriottico palestinese in cui ricordiamo la terra che ci è stata tolta. Chissà come staranno le cose domani in Cisgiordania” mi dice l’autista dell’autobus. Era venerdì della settimana scorsa, guidavo un gruppo di pellegrini durante la settimana santa e stavamo programmando il nostro viaggio a Nablus e Ramallah per il giorno seguente, sabato 30 marzo. Quel giorno migliaia di palestinesi si sono ammassati al confine fra Gaza e Israele per manifestare la loro determinazione a riprendersi le loro terre di una volta. Una quindicina di morti e più di mille feriti sono stati il risultato. In segno di protesta è stato indetto uno sciopero generale in tutta la Cisgiordania e Gaza per il giorno seguente, proprio quando saremmo dovuti passare noi.
Nella parrocchia della Sacra Famiglia a Ramallah, dove ho fatto il viceparrocco per due anni, siamo stati accolti don Jamal Khader che ho conosciuto quando entrambi eravamo professori nell’Università di Betlemme. Ci ha parlato delle gioie e delle difficoltà dei parrocchiani e poi della sua esperienza come guida della commissione per il Patriarcato di Gerusalemme nel dialogo ecumenico e interreligioso.
Ha poi descritto come la comunità cristiana sia completamente integrata nella società palestinese; ad esempio ogni sabato santo tutte le confessioni cristiane si mettono insieme alle autorità politiche della zona, compresi gli scout cristiani e musulmani, per accogliere la santa fiamma che arriva dal sepolcro di Cristo a Gerusalemme con cui accendere le candele della vigilia di Pasqua.
A questo punto una pellegrina del nostro gruppo lo ha interrotto con una domanda. “Venendo qui abbiamo visto tante colonie ebraiche in Cisgiordania — ha chiesto —, e mi chiedo se anche gli ebrei partecipino a questo avvenimento comunitario che hai descritto”. Don Jamal ha avuto un momento di perplessità davanti a questa domanda inaspettata. “Occorre capire — ha risposto con grande calma — che gli israeliani sono i nostri nemici e perciò non è possibile fare questo gesto insieme a loro”.
Questa risposta mi ha colpito molto, perché Jamal ha detto le parole che ho riportato senza nessuna traccia di rancore, paura, astio o odio. La parola “nemico” l’ha pronunciata come un semplice ma triste fatto. Lui, che ha passato molto anni in dialogo intenso con gli ebrei israeliani e ha tenuto stretti rapporti con loro, si è trovato costretto a riconoscere i fatti cosi come sono. Ma questi fatti tragici non escludono l’amore e il desiderio di trovare il modo di stare insieme.
Gesù ci comanda di amare i nostri nemici (Mt 5,44) ma non dice che i nemici non ci saranno. La via del Signore non è l’eliminazione del male, ma lo stabilirsi di un rapporto di verità ed amore che neanche la morte può fermare. Quindi non elimina l’inimicizia, ma ci permette affrontarla con speranza e senza paura.
Vorrei anch’io poter guardare alla realtà nella luce della risurrezione di Gesù con quello stesso coraggio che ho visto in quel prete. È un coraggio che non ha paura di dire “amico”, ma nemmeno teme di dire “nemico”. Entrambe le situazioni sono occasione di domandare la vittoria di Cristo, di poter amare, come Egli ci insegna. È il coraggio dell’umiltà di Maria, l’umiltà che preferisce la realtà e la verità perché è solo lì che Cristo si fa incontrare.