Da cosa si riconosce che un’opera letteraria è veramente un «classico»? Domanda solo apparentemente futile, perché rispondervi significa avere il gusto di dire che non tutta la produzione letteraria ha lo stesso valore e, soprattutto, il coraggio di tirarsi fuori dai facili meccanismi di campagne di propaganda ben orchestrate che d’ogni schifezza fanno un capolavoro. Da cosa, dunque, si riconosce un classico? Cerco di rispondere con un esempio.
Aleksandr Solženicyn ha scritto Arcipelago Gulag raccogliendo, con rischio personale, moltissime testimonianze sul sistema dei campi di lavoro forzato in URSS, che lui stesso aveva sperimentato. Ovviamente non poté pubblicarlo nel proprio paese – ancora governato dallo stesso partito che avevano inventato quel mostro – e lo fece uscire all’estero. Bollato per questo come «nemico della patria», fu esiliato, ricevette il premio Nobel, continuò a lavorare alacremente. E quando il regime che aveva costruito il gulag – nel frattempo diventata parola di uso comune; e quando un’opera riesce a introdurre un termine nuovo nel linguaggio di tutti si può già pensare che sia un classico –, quando quel regime crollò Solženicyn tornò in patria, prima osannato e poi sostanzialmente dimenticato. Scrisse ancora molto e poi morì nel 2008. L’anno successivo la vedova incontrò Vladimir Putin per discutere l’idea – poi realizzata – di inserire l’opera di Solženicyn nei programmi scolastici. «Va bene, disse lei, ma non per utilizzarla a fini propagandistici».
E veniamo ai nostri giorni. Un paio di settimane fa, il direttore dell’importante rivista Literaturnaja Gazeta – che in tempi sovietici trasmetteva agli scrittori la linea del partito e chi non si adeguava se la vedeva parecchio male – ha pesantemente attaccato Arcipelago Gulag, scrivendo che «non è una corretta descrizione della realtà», che il suo autore non è un modello perché «ha abbandonato il suo paese» (mentre ne è stato cacciato) e che, quindi, è un errore farlo studiare a scuola. Ovviamente si tratta di stupidaggini. Ma è facile comprendere perché tali idee emergano proprio adesso, in una situazione, cioè, in cui il governo russo sta puntando molto sul nazionalismo, sulla totale opposizione ad un Occidente tornato «nemico» (si pensi alle sanzioni in seguito alla guerra in Ucraina), sulla grandezza della propria storia e cultura. Chi ha mostrato che in quella storia ci sono macchie enormi di male e di ingiustizia – come l’arcipelago dei campi di lavoro facilmente utilizzati come campi di sterminio – diventa immediatamente troppo scomodo, da rimuovere.
Cinque anni fa la monumentale opera di Solženicyn sembrava utilizzabile per ridare lustro e identità alla nazione; ora – per le stesse ragioni – quella stessa opera viene giudicata come pericolosa.
Ciò sta a dimostrare che in quelle pagine c’è di più, molto di più, di quel che sembra a prima vista, di quello che si può pensare di utilizzare per i propri scopi, di quello che si può incasellare nelle piccole scatole dei propri schemi. Quelle pagine mettono continuamente in moto, costringono ad approfondire, aprono domande sempre nuove, coinvolgono. Insomma, sono le pagine di un «classico».
Quando un testo – di qualunque tipo – non scomoda più il presente non è un classico; semmai è un noioso monumento su cui si può esercitare soltanto l’ancor più noiosa saccenteria dei commentatori.