La tragedia di centinaia di uomini che muoiono cercando rifugio e protezione nella vecchia Europa è l’insegna sotto la quale si apre il nuovo anno sociale dell’Occidente. Così, mentre le istituzioni europee e internazionali continuano a fissare incontri e riunioni che non affrontano il problema con la dovuta serietà, procrastinandolo all’infinito, la Chiesa cattolica — soprattutto attraverso la voce del Papa — non cessa di educare la coscienza civile degli uomini di tutto il mondo ad un sentimento di fratellanza che non sgorga da una generosa filantropia, ma dalla consapevolezza che gli esseri umani, sia quelli che scappano sia quelli che vivono sotto il nostro stesso tetto, sono tutti figli di un unico Padre.
Fa impressione osservare come la Chiesa avverta la profondità del “problema immigrazione”: essa non lo lega ad una “questione sociale”, ma ad una posizione di fede inerente il cuore di ciascuno di noi. I giornali e le cronache, invece, ci presentano la delicata situazione migratoria come una scelta netta tra la politica dell’accoglienza e quella della paura, estrapolando le decisioni da assumere da un giudizio complessivo e autentico sulla società. La cifra dominante il nostro vivere comune — infatti — non è, come ci raccontano, la paura, bensì la solitudine. Quella solitudine che assale tutti e che non nasce dal sentirsi “soli”, ma dall’essere “impotenti”.
È l’impotenza ciò che avvertiamo di fronte ad un’onda inarrestabile di uomini che si abbatte sull’Europa, ciò che sentiamo davanti ad un tumore, ad una fatica o ad una circostanza che non è come vorremmo noi, ciò che prima o poi ci afferra in un matrimonio o in un rapporto che ormai avvertiamo come logoro, è l’impotenza che genera in noi solitudine, vuoto e senso del nulla.
La solitudine è dunque il fattore che meglio fotografa il cuore di tanti in quest’inizio d’anno, mentre la tentazione più grande che lo attraversa è quella di “fare battaglie”, di “aprire la caccia al profugo”, di stringere legami affettivi qualunque “purché ci siano” oppure di “evadere dal presente”, di scappare dal contatto reale col mondo, per non sentire più l’urgenza e il bisogno ultimo del nostro stesso Io. La rabbia, la paura, il gusto del “proibito” non sono anzitutto “problemi personali”, ma segni tangibili di una ribellione ultima e definitiva ad una vita che finiamo quasi sempre per avvertire “contro” di noi.
Questo la Chiesa lo sa. Ed è proprio per questo che essa ci invita a non cercare in nessuna battaglia, in nessun legame o in nessuna “distrazione” una risposta al nostro disagio: essa può arrivare solo da Qualcos’Altro, da Qualcuno che entri nella nostra terra e la trasformi.
Ecco la ragionevolezza del pregare, del testimoniare e del dialogare: noi non preghiamo, o viviamo la fede, per riuscire a fermare gli sbarchi, né per cambiare la realtà, ma perché si mostri nel nostro presente impotente “la grande Potenza di Dio” che usa di cose piccole e di uomini semplici per agire nel tempo e trasformare la storia.
Narrano le cronache liguri che una certa Marinin fosse la domestica di un importante professorone agnostico e che costui, tutti i giorni, la canzonasse sempre per il latino scorretto con cui la donna, allo scoccare del mezzogiorno, recitava l’Angelus. Marinin un giorno rispose con prontezza che il punto della vita non era che quelle parole fossero capite dagli uomini, ma che arrivassero a Dio. Il professore, colpito nel profondo, cominciò così a incuriosirsi della donna che finì con l’abbracciare del tutto la fede cristiana. Solo una Potenza può salvarci dalla nostra impotenza e abbracciare tutta la nostra solitudine. Non c’è matrimonio, partito, amicizia, battaglia, droga o piacere che possano colmare il desiderio del nostro povero cuore. Marinin lo sapeva.
L’Europa di oggi, quando parla di profughi o di popoli, sembra saperlo un po’ meno. E con lei tutti noi che, a forza di cercare soluzioni e vittorie ai nostri problemi, non ci rendiamo conto che stiamo voltando le spalle alla vera questione che conta, a quella strana solitudine che solo un Incontro, solo una Presenza, possono davvero abbracciare e far rifiorire. Affinché tutto possa davvero trovare un luogo dove poter ripartire, un’esperienza in cui anche il volto del profugo che sbarca, o del nemico che bussa alla porta, diventi una meravigliosa occasione per dire “Io”, per vivere.