«Stiamo dentro una terra incognita, alla fine sicuramente c’è, come per tutte le crisi, un cambiamento di prospettiva», ha detto il ministro Tremonti nella sua prolusione all’Università Cattolica. Davanti alla crisi finanziaria globale che di giorno in giorno assume sempre più i caratteri di un fenomeno dai contorni imprevedibili, non ci sono in effetti ricette o soluzioni preconfezionate. Tremonti parla di «una rottura di continuità, di una crisi che tuttavia porta a una soluzione». In questo senso se la situazione attuale contribuirà a ridare all’economia reale il primato che le spetta, sarà senz’altro occasione di una svolta importante. Si tratta di ristabilire un ordine delle cose che negli ultimi anni è stato sovvertito perché si è puntato, come ha ricordato Sapelli, sull’autoreferenzialità ora di un’economia ridotta a tecnica di calcoli, ora di una finanza separata dal proprio oggetto. Dunque la crisi può rappresentare il momento del ritorno a un sano realismo da cui prendere le mosse per ripartire. Indubbiamente, citando le affermazioni di Tremonti, «stiamo dentro a una situazione caratterizzata da grandi complessità». La realtà del resto si presenta sempre complessa e, proprio in forza di tale natura, non può essere ingabbiata dentro un sistema di regole ferree che pure occorrono. Abbiamo già assistito, anche in tempi recenti, al tentativo di rimettere le cose a posto con un’overdose di regolamentazioni che oggi hanno dimostrato tutta la loro inefficacia nel proteggerci dagli effetti perversi di meccanismi finanziari impazziti. Alla fine è sempre la persona che rischia, che implica se stessa in un rapporto con la realtà, nel bene e nel male, a fare la differenza.
La distinzione che fa Profumo, nelle dichiarazioni riportate dal Corriere della Sera, fra la responsabilità individuale e quella delle istituzioni non ha mai un confine netto.
In tale ottica non mi convince la sottolineatura che Tremonti ripetutamente fa sulla necessità di recuperare una dimensione etica dell’economia. È come se ci trovassimo di fronte a un pericoloso “salto di carreggiata”: prima si pone sul banco degli imputati un capitalismo schiavo del conto economico (cioè del mondo dei prezzi), vittima delle frenesie da trimestrale, che ha relegato in secondo piano lo stato patrimoniale (cioè il mondo dei valori), ma poi quando si tratta di entrare nel merito ci si rifugia nell’etica. L’impalcatura di regole, leggi e strutture che è stata concepita, si affida ultimamente alla pretesa che qualcuno sia a priori e per definizione “onesto”. Così facendo ancora una volta ci si esime dal misurarsi con la realtà che è fatta in egual misura di bene e di male. L’amministratore di una banca, per esempio, è chiamato a svolgere in modo efficace la sua funzione di sostegno allo sviluppo dell’economia reale, rischiando e decidendo, inclusa la possibilità di sbagliare. Ciò rientra nei suoi compiti. Chiedergli di essere etico significa spostare il problema da un’altra parte: si esonera di fatto la persona dalla propria responsabilità e si demanda tutto al rispetto formale della legge “con l’introduzione di un ordine, di una disciplina, di valori morali”. Un’istituzione finanziaria è stretta fra il rispetto delle regole, compreso il rapporto con le autorità di controllo, e il mercato che deve servire. Purtroppo adesso si sta creando, dai massimi vertici fino ai livelli più bassi, un’attenzione esagerata, talvolta quasi ossessiva, verso il rispetto delle regole. Queste ultime giustamente vanno applicate in modo scrupoloso e ciò è fuori discussione. Chi gestisce una banca, però, ha per sua natura a che fare col rischio, è chiamato prima di tutto a servire un mercato molto articolato che, dalla piccola alla grande impresa, dall’artigiano alla famiglia, si presenta spesso problematico e che si aspetta risposte concrete. Se viene meno tale consapevolezza accade di sentir parlare di etica molti di coloro che hanno fatto un uso spregiudicato dei derivati. Forse c’è qualcosa che non funziona, la stonatura è evidente. Sapelli acutamente osserva che «chi parla di etica spesso si comporta male». Oggi di fronte alla crisi la cosa più urgente è ricreare un clima di fiducia. Pensare che ciò possa avvenire grazie a un soprassalto etico sarebbe un’illusione foriera di cocenti delusioni. La fiducia, che è la materia prima del mercato, appartiene infatti alla società che la costruisce nel tempo ed è un asset di bilancio di enorme valore economico. E proprio a questo livello si gioca una sfida decisiva per il nostro futuro.
Una seconda questione evidenziata nella prolusione di Tremonti riguarda la globalizzazione nella quale, a suo giudizio, ha avuto origine la crisi attuale. In realtà resta un processo tutt’altro che compiuto. Se si è avuta una globalizzazione finanziaria che l’interdipendenza dei mercati oggi conferma, per quanto concerne l’economia siamo assai lontani da tale obiettivo. Nell’esperienza personale che ho potuto vivere negli organismi della Wto ho misurato direttamente quale sia il peso e il potere di interdizione dei diversi protezionismi. Basti pensare al solo settore agricolo e alle contestazioni mosse da anni all’Unione Europea per la sua politica di sussidi a tale comparto. In quest’ottica credo che nel momento presente vada piuttosto rivalutato un modello di economia legata al territorio, capace di stabilire solide relazioni di cooperazione e di scambio, e di presentarsi così sui mercati più o meno globali portando non solo beni e servizi, ma anche cultura ed evidenza che il primato della persona, sia nel suo ruolo di consumatore che in quello di lavoratore, diventa fattore di convenienza. Ciò vale soprattutto per l’Italia dove l’esperienza di tanti nostri distretti industriali può essere ancora un punto significativo da cui ripartire.