Woody Allen è tornato a fare cinema serio, quello che è da apprezzare. Il suo ultimo film, Blue Jasmine, mette fine alla saga europea degli anni scorsi fatta di pellicole superficiali, meri giochi estetici per mostrare, sullo sfondo, le città più conosciute del Vecchio Continente. Il regista quasi ottantenne non fa buon cinema solamente con le sue inquadrature classiche o il suo ottimo montaggio: la forza sta nella sceneggiatura, nei personaggi.
Jasmine (una stupenda Cate Blanchett) si rifugia nella casa di sua sorella, a San Francisco, dopo aver condotto una vita nel lusso. Complice silenziosa delle frodi del marito, che ha poi denunciato, non ha abbastanza denaro per mantenere uno status che considera imprescindibile. Prova a rifarsi una vita, non ci riesce con le sue forze e quando sembra che l’amore la possa redimere viene sconfitta da una sua stessa bugia.
Alcuni hanno voluto vedere in Blue Jasmine una critica al dio successo che gli americani tanto adorano. La paura di essere dei perdenti è così radicata nel Paese da generare nevrosi. Certamente nella pellicola c’è una denuncia sociale, ma la cosa più interessante non è il ritratto sociologico, ma la capacità di descrivere questo dramma che tutti affrontiamo quotidianamente. La protagonista vorrebbe poter cambiare, ma sembra condannata a ripetere continuamente gli stessi errori. Lo spettatore soffre aspettando un cambiamento che non arriva. E l’ultima sequenza è praticamente uguale alla prima: una donna matura, bella e sola che ripete, quasi alienata, gli affronti che ha subito.
Con realismo viene descritta l’inutilità dei propositi e del volontarismo per riuscire a cambiare. Allen sa bene che il pelagianesimo di bassa lega che domina la nostra cultura non può essere la soluzione. No, non possiamo uscire dal circolo vizioso in cui ci mettono i nostri sforzi. Tuttavia questa evidenza elementare sembra trasformarsi in un determinismo proprio della tragedia greca: dal “non possiamo” al “non c’è via d’uscita”.
È un buon ritratto postmoderno, molto lontano dall’ottimismo di altre epoche: la libertà così limitata, insufficiente, che sembra la causa di una condanna. Un ciclo che si ripete generando ogni volta più scetticismo, più distruzione. Non si può rispondere in fretta a questa domanda che sembra lasciare Blue Jasmine.
È una questione che non si risolve solo definendo con maggior o minor precisione la libertà umana, fino a dove è danneggiata e dove invece continua a essere sana. Certamente va ricordato che nessun danno è talmente grande da impedire di riconoscere quel che val la pena fare e di mettersi in movimento. Ma tutto questo deve mostrarsi sul terreno dell’esperienza, nella vita pratica, e passa dalla riscoperta del significato delle cose.
A Jasmine, come a tutti noi post-moderni, mancano le cose. Gli alberi della strada, la solidità espressiva delle pietre, la successione dei giorni, la capacità di contundere degli altri, la misteriosa insistenza che ci fa sembrare vivi mattina dopo mattina, le ferite che da dentro – più di quanto ci piacerebbe – gridano giustizia e chiedono una soddisfazione che non duri solamente un attimo.
Le cose stanno lì, ma non le vediamo perché le teniamo chiuse nel nostro labirinto dove non succede niente. Se ne avessimo notizia ne sentiremmo l’irrefrenabile attrazione, quella che può tirare fuori e innalzare la nostra libertà. L’energia per il cambiamento arriva sempre da fuori. Qualcuno deve aiutarci a guardare bene.