25 anni fa non c’era un solo muro, ma due: uno a Berlino Ovest e l’altro a Berlino Est. In mezzo c’erano cento metri di terra di nessuno con posti di blocco militari. Allora nessuno immaginava che in breve tempo quei muri e i sistemi dell’Europa dell’Est erano sul punto di crollare. Il collasso dei regimi comunisti ha rappresentato, almeno teoricamente, la fine della legittimazione razionale del negativo che è stato al centro del pensiero degli ultimi due secoli (Borghesi). Nel marxismo i limiti della condizione umana e il male coincidono: il male non è la conseguenza della libertà, ma una componente necessaria della realtà che conviene utilizzare per la rivoluzione.
Questo modo di concepire la vita è finito con il muro? Le macerie di Berlino sono state l’ultima espressione dell’ideologia razionalista? L’interpretazione che è stata fatta della fine del comunismo è ideologica quasi come la sua origine. L’economista americano Robert Heilbroner ha offerto dalle pagine del New Yorker una diagnosi dell’89 in cui arriva a dire che quel che è successo era conseguenza del fatto che “il capitalismo organizza i fattori materiali dell’umanità meglio del comunismo”. Tutto sarebbe stato quindi conseguenza di una cattiva gestione. Come se i dissidenti o la miseria umana in cui viveva l’altra parte dell’Europa non contassero niente.
Giovanni Paolo II, nel libro che ha scritto poco prima di morire (Memoria e identità), ha però spiegato che fermarsi ai fattori economici sarebbe una semplificazione. Tuttavia la semplificazione economicista è diventata l’unica categoria per interpretare il passato e, soprattutto, il futuro. Negli anni ‘90 ha trionfato l’altra antropologia negativa, quella liberale: si esalta il potere del mercato e la sua capacità di trasformare l’egoismo individuale (interessi) in bene collettivo. Si esalta la globalizzazione, che in realtà è una mondializzazione finanziaria dato che l’economia reale continua a essere locale. Trionfa l’individualismo, il capitalismo senza freni. Tutto diventa apparenza, tutto è liquido.
L’attacco alle Torri gemelle nel 2001 e la crisi che ha portato alla Grande Recessione ci hanno risvegliato da una baldoria che non poteva durare. Nel primo decennio del secolo, davanti allo scandalo che porta tanto relativismo, c’è chi richiede ordine. La caduta del comunismo aveva portato libertà, ma non c’era stata un’indagine sul suo contenuto. Era arrivato il momento di affermare alcuni principi sicuri, di parlare di verità. Ma nessuno aveva guardato bene ai passi da fare per ottenere la libertà e tutto si è trasformato in uno schema, in una nuova imposizione, in un’altra forma di ideologia.
Sei anni dopo la crisi più dura dell’ultimo secolo si aprono crepe in un bunker che è ancora in piedi. È vero, come dice Finkielkraut, che dopo che sono trascorsi molti anni dalla caduta del Muro siamo ancora soggetti alla tentazione dell’ideologia. Viviamo in un mondo post-marxista e post-totalitario, ma il principio di “ragione sufficiente” è sopravvissuto al marxismo. Questo principio ci obbliga a pensare che le cose accadono perché devono accadere, perché ci sono ragioni sufficienti perché avvengano. Il razionalismo non è caduto, continua a esprimersi attraverso ciò che il filosofo francese definisce una specie di “risentimento contro il mondo così come è donato”. E continua a causare incomprensioni sulla libertà che giustifica il male come un passo verso un mondo migliore.
Ma la domanda che si fa lo stesso Finkielkraut rappresenta già qualcosa di nuovo: “L’uomo è destinato a vivere in mezzo ai propri prodotti, oppure non dobbiamo giustamente prendere il partito del dato? Che siamo atei o credenti, ritengo che dobbiamo sentirci chiamato a quel tipo di conversione di cui la poesia ha sempre parlato”.
Finkielkraut non è un caso isolato. La prova che i tempi sono cambiati l’abbiamo nel fatto che possiamo leggere pagine come quelle in cui Rudolf Steiner (filosofo austriaco vissuto a cavallo tra il XIX e il XX secolo) descrive la sua infanzia. Il filosofo di origine ebraica ricorda che, dopo aver ricevuto un regalo nella sua natia Austria, si è sentito sorpreso dall’esistenza delle cose. “Uscii correndo in pieno diluvio per assicurarmi di una così elementare e miracolosa verità: ogni filo d’erba, ogni sasso sulla riva del lago erano, per sempre, esattamente così”. E più avanti aggiunge che “tutti siamo invitati alla vita. Perché esisto?” Domanda che implica un’apertura poco frequente oggi e che porta due nuove questioni: “Qual è la fonte delle nostre indelebili speranze, dei nostri presentimenti, dei nostri sogni proiettati verso il futuro? In quale luogo sorge la marea del desiderio che sfida il dolore, il giogo della schiavitù e l’ingiustizia?”.
Il compito più urgente, 25 anni dopo la caduta del Muro, è trovare persone che possano farsi queste domande, che possano guardare a ogni filo d’erba in questo modo, che si sentano invitati a una vita che è dono. Questo è il cammino per riconquistare, sotto le macerie, il contenuto e il protagonismo della libertà.