Dal progetto al soggetto

Il sottosviluppo è questione di uomini, l’uomo è questione di educazione. Un processo lungo, a volte lunghissimo, e non misurabile. Ha che fare con categorie che non entrano negli standard delle agenzie internazionali: incontro, condivisione, gratuità, passione, coinvolgimento

Mentre milioni di italiani sono subissati di natalizi appelli a solidarietà e aiuti di qualunque genere e destinazione, escono nuovi desolanti dati. Nel 2008 altri quaranta milioni di umani si sono aggiunti alla fila di coloro che soffrono la fame, che ora sono 963 milioni. Un subsahariano su tre è cronicamente affamato; nella Repubblica democratica Congo, della quale solo la Chiesa Cattolica ormai ricorda l’esistenza, il 76% della popolazione è sottonutrita.

 

La Fao dice che servirebbero trenta miliardi di dollari all’anno per arginare l’emergenza e cominciare a risalire l’impervia montagna della miseria più spaventosa che affligge quasi un miliardo di persone. Certo, il pulpito da cui vengono declamate queste parole non è dei più titolati, dal momento che da anni si aspetta la “riforma” che dovrebbe trasformare uno dei più inefficienti carrozzoni mondiali in una struttura seria e efficace. Ma non ha torto l’agenzia quando fa notare che 30 miliardi di dollari sono l’8% di quanto i paesi sviluppati hanno speso nel 2007 per sussidiare le proprie agricolture.

E se facciamo il paragone con quanto stanno costando i salvataggi delle banche c’è da pensare se non fosse il caso di limare appena un pochino le somme destinate a tenerle in piedi per salvare davvero alcuni milioni di bambini africani (sono sicuro che in Italia disoccupati e cassaintegrati, clienti e dipendenti di quelle stesse banche che intanto – incredibilmente! – hanno ottenuto la deroga all’assunzione dei disabili in quanto “aziende in crisi”, sarebbero molto più contenti).

Ma qui c’è un problema. È stato calcolato che di 100 dollari donati dall’Europa all’Africa bisognosa solo 20 arrivano all’africano bisognoso; 80 dollari, e cioè l’80% della somma donata, non riescono a superare gli sbarramenti innalzati dalla corruzione, dal ricatto, dal governo e anche dal mantenimento delle strutture deputate. E così, se davvero servissero 30 miliardi di dollari “netti”, i Paesi sviluppati dovrebbero in realtà impiegarne 150 “lordi”: la diseconomia è eccessiva (anche se noi conosciamo bene il fenomeno per il quale una azienda ha un “c.az”, costo azienda, di 2100 euro mensili per una “ral”, retribuzione al dipendente, di 1000 netti).

Dunque con i soli soldi non si risolve un bel nulla. E per di più nel mercato della solidarietà mondiale i soldi sono una merce sempre più rara. Non passa giorno senza che qualcuno faccia riferimento ai celeberrimi “obbiettivi del millennio”, definiti dall’Onu nel fatidico passaggio dell’anno 2000 (che rispetto a oggi è una specie di jurassico, tanto ci pareva foriero di bene e traguardi).

Ebbene da quegli otto obbiettivi, distribuiti tra lotta alla fame, educazione, salute e ambiente, restiamo lontanissimi: nessuno verrà raggiunto entro il 2015, anno di scadenza di un impegno che sarà da rottamare insieme alle auto e ai televisori delle nostre case occidentali (se non consumiamo, ci viene detto, non usciamo dalla crisi). Il dato più clamoroso (del quale tutti si vergognano): i Paesi ricchi avevano giurato di arrivare a spendere lo 0,7% del Pil per i Paesi poveri, ma oggi si spende molto meno persino di quando la promessa era stata fatta. È la dura e spigolosa realtà.

A quale santo rivolgersi per aiutare l’Africa? Come spesso accade (eppure pochi lo capiscono), i momenti di crisi hanno una loro profonda utilità: fanno emergere l’essenziale, quel che davvero conta. I soldi sono indispensabili, naturalmente, ma oggi è chiaro che sono una parte del problema e non la maggior parte del problema.

Ora, se non fosse una espressione maledetta dovremmo parlare di una “rivoluzione culturale” da lanciare con questo slogan: dal progetto al soggetto. Il sottosviluppo è questione di uomini, l’uomo è questione di educazione. Un processo lungo, a volte lunghissimo, e non misurabile. Ha che fare con categorie che non entrano negli standard delle agenzie internazionali: incontro, condivisione, gratuità, passione, coinvolgimento. E il bello è che dove questa rivoluzione viene applicata funziona (e senza mandare nessuno in prigione, anzi).

Prima di scucire quel poco denaro che resta in cassa a scopo umanitario, i governi dovrebbero informarsi bene su qual è l’unico modo per farlo fruttare davvero. E così anche noi, quando ci chiedono soldi per “un gesto di solidarietà a chi è più sfortunato”.

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