La giornata di lavoro è finita e mentre sto andando alla fermata dell’autobus, affianco una giovane signora che spinge una carrozzina con un neonato; accanto trotterella una bambina bionda. Mentre li sto superando sento che la mamma dice alla figlia: “Guarda che bello: il cielo è rosa!”. Ed effettivamente il forte vento che ha soffiato tutto il giorno ha ripulito l’aria offrendoci non solo lo spettacolo di montagne di solito invisibili, ma anche uno splendido tramonto colorato. Sono contento che quella mamma educhi la propria bambina a guardarsi attorno, a stupirsi di quello che la circonda; soprattutto se è così raro, come quelle nuvole rosa nel cielo solitamente plumbeo di Milano. Io non l’ho captato, ma probabilmente la piccola deve aver fatto alla madre la fatidica domanda propria dei bambini: “Perché?”; infatti la sento rispondere: “Qualcuno l’ha colorato”.
Toh, penso, è proprio vero che per dare ragione adeguata ad una cosa che ci stupisce dobbiamo far entrare nel nostro orizzonte l’ipotesi di “qualcuno” che ne sia l’artefice. E questa dinamica non riguarda solo il cielo roseo di uno serata straordinaria, ma – a ben pensarci – ogni cosa che vedo: tutto è dato.
Ma c’è qualcosa che non finisce di convincermi in quella pur bella risposta della giovane mamma. Che “qualcuno” abbia dipinto quel cielo mi sembra una motivazione che si ferma ad un passo dalla conclusione più compiutamente ragionevole. Ho immaginato che la bambina potesse pensare ad un’impresa di imbianchini che con lunghe scale sia salita fin lassù a pennellare le nuvole. Del resto quando sarà grande le diranno che quello stupendo fenomeno si può scientificamente spiegare analizzando i diversi effetti della rifrazione della luce solare e così quel “qualcuno” potrebbe non esserci più, svanire dall’orizzonte. Anche se non potrà svanire l’evidenza dello stupore che ci tocca anche solo una volta e chiede di essere spiegato; come ha descritto Claudio Chieffo: “La notte che ho visto le stelle non volevo più dormire, volevo salire là in alto per vedere… e per capire”.
Rimuginando su questa sensazione di incompletezza, alla fine ho capito. Dire: “Qualcuno ha colorato il cielo” è giustissimo, ma come sarebbe ancora più completo e soddisfacente poter pronunciare il nome di questo “qualcuno”. E mi sono ricordato di un’altra mamma e di un altro bambino che nella Desio della fine degli anni Venti del secolo scorso andavano a messa di primo mattino. Anche allora il cielo era terso e l’ultima stella si stagliava nitida in esso; e anche allora una giovane mamma, Angelina Gelosa sposata Giussani, additava al figlio, Luigi, la bellezza dello spettacolo: “Come è bello il mondo”, aggiungendo però: “E come è grande Dio!”. Rispondendo all’inevitabile “Perché?” del figlio quella mamma era stata in grado di dare un nome – misterioso ma amico – al “qualcuno” che aveva messo là la lucente stella del mattino e tanti anni dopo avrebbe dipinto di rosa il cielo di Milano per lo stupore di altri occhi di madre e bambina.