Domenica 30 agosto, inserto culturale del Corriere della Sera, lungo e lucido articolo di Mauro Bonazzi sul filosofo greco Eraclito che — dice il sommario — «Anticipò l’idea di un cosmo senza finalità». Caspita, niente di meno! Il cosmo, cioè tutto quello che esiste, è come un fiume: si muove, ma non è necessario pensare che vada da qualche parte; va e basta. «L’identità è nel cambiamento e non serve postulare l’esistenza di una realtà stabile al di là del nostro mondo»; Bonazzi scrive che Eraclito (vissuto 500 anni prima di Cristo) l’aveva capito e se l’umanità avesse seguito la sua intuizione non avrebbe inventato gravose metafisiche (da Platone in poi) e neppure avrebbe continuato nel vecchio vizio di ipotizzare un qualche Dio per dare consistenza al perpetuo divenire del cosmo. Ma ora si siamo liberati delle metafisiche e anche di Dio.
La “morte di Dio” — ricorda l’articolo — non è questioncella indolore (Nietzsche, che per primo ne ha parlato, ci ha perso il senno), perché «Dio era la garanzia che l’universo, questo immenso universo che perennemente si trasforma, avesse un senso, rispondesse a un disegno di cui ciascuno di noi faceva parte». Ma ormai il morto è morto e non c’è più niente da fare.
Anzi, qualcosa da fare c’è: ammazzare la «metafisica dell’io», cioè la pretesa che solo noi siamo un po’ diversi dal perenne flusso cosmico.
Bonazzi cita in proposito un esperimento. Ad un gruppo di quarantenni sono stati ricordati giudizi e pensieri che avevano a vent’anni; «Roba passata, idee di gioventù» hanno risposto. Dopo vent’anni allo stesso gruppo, ora di sessantenni, è stato chiesto cosa pensassero delle loro idee di quarantenni: «Roba passata; ora son diverso». Un po’ forzatamente, la conclusione dell’esperimento sarebbe che in simile divenire continuo di pensieri e di emozioni non esiste qualcosa che possiamo definire “io”. O, meglio, che «come l’identità del fiume è garantita dallo scorrere delle acque, così l’identità di un uomo è garantita dal flusso delle sue esperienze. Noi siamo le esperienze che facciamo». Questo è vero solo in parte: è la mia autocoscienza (che il fiume non ha, e infatti non dice “io”) che è consapevole di quello che succede a me, delle trasformazioni cui vado incontro, dei cambiamenti che registro; l’io è qualcosa di diverso dal cumulo delle esperienze che registra e giudica. Solo attingendo a questo livello la parola “io” è pronunciata nel suo senso compiuto.
E solo così l’io mantiene la sua inviolabile dignità. L’esatto opposto della conclusione dell’articolo che sto analizzando: «Anche noi siamo parte di questo tutto che si trasforma eternamente secondo il suo ritmo: dobbiamo imparare a conformarci a questo ritmo, trovando il nostro equilibrio».
Nossignore, non ci penso neanche a conformarmi al ritmo di un cosmo che «non tende verso nessun fine», a considerarmi un puro insieme di pensieri ed emozioni perpetuamente cangianti, fino a quando cambieranno così tanto da piombare in un flusso indistinto in cui niente potrà dire: “Io, Pigi Colognesi”. Anche perché mi resta il sospetto che nel frattempo — cioè fin tanto che sono vivo — ci sia qualche potere determinato a sfruttare il mio flusso di pensieri ed emozioni per i propri interessi.