Mentre in Italia si è chiuso un altro round del confronto tra governo e parti sociali, è già stato fissato per il 29 marzo lo sciopero generale che cercherà di bloccare la Spagna. Si tratta della risposta politica delle organizzazioni sindacali maggioritarie alla riforma del lavoro del Governo di Mariano Rajoy. Il cambiamento nella regolamentazione del mercato del lavoro è ancora in fase di conversione in legge in Parlamento, il nuovo esecutivo non ha ancora compiuto 100 giorni, ma i sindacati, assumendosi un grande rischio, hanno fatto questa scelta. Perché hanno bisogno di dare un segnale forte. Si tratta di uno sciopero decisivo, sia per il futuro dei sindacati che per la cultura del lavoro.
I sindacati hanno un gran peso nella vita sociale ed economica del Paese, non tanto per il numero degli associati, quanto per le funzioni che gli sono state concesse con la fine della dittatura. Una scelta fatta in parte per compensare le condanne contro i leader sindacali nel “processo 1001” (con il quale nel 1973 furono messi in carcere i vertici del sindacato che si opponeva al franchismo, ndr) tenutosi quando era in vita Franco. Il movimento operaio è stato uno dei poli di delegittimazione e di opposizione al regime franchista. Soprattutto dagli anni ‘60, quando comunisti e cattolici diedero vita a commissioni che negoziarono direttamente con i datori di lavoro al di fuori dei “canali ufficiali”. Il movimento sindacale si è ideologizzato negli anni ‘70 e ‘80. E ora è diventato una realtà autonoma con la propria agenda di potere.
Il socialista Felipe González è stato il primo a tentare di cambiare la situazione, ma le organizzazioni sindacali vinsero la partita con uno sciopero generale nel 1988. Qualcosa di simile è successo ad Aznar e anche lui ha dovuto fare marcia indietro dopo lo sciopero del 2002. E così la Spagna non ha potuto mettere in atto quel “ridimensionamento sindacale” che in Gran Bretagna hanno reso famosi la Thatcher a destra e Blair a sinistra.
Questo può essere un momento decisivo: si può riuscire laddove González e Aznar hanno fallito. Secondo i sondaggi, quasi il 70% degli spagnoli non sostiene lo sciopero. Con una crisi che farà arrivare a 6 milioni il numero di disoccupati quest’anno, l’opinione pubblica percepisce l’irresponsabilità dei sindacati. Le organizzazioni si giocano molto: se non otterranno un’ampia adesione inizierà il loro declino. Il governo Rajoy si armerà di buone ragioni per limitare il loro potere. Ma bloccare la vita di un Paese è molto facile, soprattutto nelle grandi città. Basta fermare i trasporti e il confronto può prolungarsi per mesi.
Le organizzazioni godono inoltre di un vantaggio: c’è un’importante fascia della popolazione con una mentalità che resiste al cambiamento. Nonostante la Spagna sia il Paese con il più alto tasso di disoccupazione in Europa, c’è timore di concedere più flessibilità alle imprese. E molti pensano che questa flessibilità non verrà utilizzata per mantenere o creare posti di lavoro, ma per distruggerli.
Non si può non capire questa paura. È un sintomo dell’insicurezza, della mancanza di fiducia nelle nuove opportunità, dell’avversione al rischio, della resistenza al cambiamento, forse anche della solitudine che c’è nell’affrontare situazioni difficili. Molte persone pensano, anche se sono disoccupate, che l’unica garanzia contro la crisi sia un licenziamento costoso. Anche se questo soffoca la competitività. Per questo, oltre al cambiamento della cultura sindacale, è decisivo quello della cultura del lavoro, così da superare la paura.
La “vertigine” del lavoro si può vincere con l’educazione di giovani e adulti, con una compagnia che permette di intraprendere, di rischiare, di aprire nuovi orizzonti. In Spagna, come hanno dimostrato gli studi sociologo Victor Pérez Díaz, una delle cose che più manca è la fiducia reciproca nel mondo delle relazioni economiche. C’è quindi molto da imparare.