Addio alla morte?

Non possiamo rassegnarci, spiega PIGI COLOGNESI, al senso indotto dal pensiero moderno circa la banalità della morte, circostanza di cui, non di rado, facciamo in parte esperienza

In un recente saggio George Steiner afferma che sta mutando il senso della morte, e sta mutando così radicalmente da far pensare che ci troviamo di fronte alla «morte della morte classica», cioè come l’abbiamo pensata da quando l’uomo ha cominciato a rifletterci. Le cause del cambiamento sono molteplici. La tragica storia del secolo appena trascorso ha evidenziato la verosimiglianza della cinica frase di Stalin secondo cui «La morte di un uomo può essere una tragedia. La morte di un milione è una statistica». Oggi, d’altro canto, assistiamo alla abnorme pretesa della scienza di intervenire a piacimento sull’origine della vita (fino a ipotizzarne la produzione in laboratorio) e sulla scelta della morte, con la conseguenza che sia la prima che la seconda risultano dei puri meccanismi tutto sommato governabili; non c’è da star lì a pensarci su molto: si viene al mondo per una concomitanza casuale di cellule e lo si lascia – apparentemente senza rammarico – quando e come lo si decide. L’algida considerazione della scienza tende ad escludere ogni ragionamento che apra – sia per la vita che per il suo termine – la domanda del «perchè?». Sarebbe domanda senza senso, visto anche che della nostra morte – si dice – noi non abbiamo nessuna esperienza.

Certamente questa asserzione ha un fondo di verità. Tuttavia dobbiamo considerare che – a prescindere dall’esperienza che invece facciamo della morte di persone vicine e care – noi sperimentiamo molti «anticipi» della morte. Può capitare – gli esempi sono banali, ma solo fino ad un certo punto e, in ogni caso, una cosa è banale solo se è presa banalmente – che ci si ammali improvvisamente di un fastidiosissimo raffreddore. Le semplici azioni che fino al giorno prima erano ovvie diventano impossibili; sul lavoro non ci si riesce a concentrare, rispondere al telefono costa fatica, brividi di freddo si alternano a vampate di calore e non si sa cosa indossare, l’appetito va e viene. Insomma, una certa normalità ovvia è finita, non tiene più, è morta. Allora si pensa che la vita stessa ha di fronte questa parabola e che verrà il momento in cui il cambiamento sarà radicale e definitivo. Ma la mia posizione di fronte ad un simile fatto sarà la stessa che ho adesso di fronte al raffreddore; la morte mi pone cioè la domanda su valore e senso della vita nel suo complesso, così come il raffreddore me la pone su valore e senso di questa mattina in cui non riesco a fare quello che prima era ovvio.

Analoga esperienza nell’uso delle cose: il pc che fino a un’ora fa mi serviva per scrivere questo editoriale è improvvisamente «morto» – non sto inventando – e quindi devo raccappezzarmi per trovare delle soluzioni alternative. E mi chiedo come mai le cose non durino sempre e cosa m’insegna il fatto che finiscano, cosa vuol dire che siamo inseriti in un flusso di cambiamento e se mi sta bene concludere che è così perché è così e che il flusso non va da nessuna parte ma è solo un gorgo rifluente su se stesso. Non ho bisogno di morire per sapere per esperienza cosa sia la morte. E sapendolo, non intendo rassegnarmi alla sua ultima insignificanza, anche se me lo dice la scienza, né ad essere un numero anonimo nella statistica staliniana.

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