Che cosa sta succedendo in Russia? Sono in molti a chiedermelo, davanti alle proteste che in questi giorni sono dilagate ovunque, da Mosca e Pietroburgo fino a Vladivostok, interessando centri grandi e piccoli della Russia Europea, della Siberia e dell’Estremo Oriente. Dietro la facciata di compatta unità nazionale che i media ci hanno abituato a vedere, si scorge una realtà molto più complessa e variegata. A cent’anni dalla rivoluzione che scosse la Russia e il mondo intero, questi sommovimenti tellurici che cosa stanno a indicare? Chi sono i giovani e giovanissimi in piazza, in jeans e maglietta, faccia a faccia con poliziotti armati fino ai denti? Chi sono le migliaia di “fermati” dalla polizia?
Molti, in questi ultimi tempi, si sono cimentati nell’individuare la “cifra” del popolo russo, della sua storia e in particolare degli ultimi cent’anni, ma mi sembra che – più che mettersi in ascolto di questa esperienza e dei suoi protagonisti – se ne operino riduzioni strumentali a categorie ideologiche in voga. C’è chi, ad esempio, dando una lettura in chiave “religiosa” della rivoluzione (cfr. la recensione “Il vangelo secondo Lenin” di Sergio Romano, apparsa qualche giorno fa sul “Corriere”), se ne serve, in nome di una “laicità” che si definisce in antitesi a ogni tipo di fede, per dimostrare che le religioni sono un fattore di destabilizzazione personale e sociale. Non molto diversamente parlavano gli ideologi comunisti mandando a morte milioni di uomini. Non molto diversamente parlano le ciniche ideologie di morte oggi.
Chi in Russia in questi giorni è sceso in piazza – nella stragrande maggioranza ragazzi nati nell’era Putin e cresciuti a pane e propaganda patriottica – come chi è passato attraverso l’esperimento comunista, ha fatto un salto di qualità, rispetto a queste dinamiche di pensiero; con vari gradi di consapevolezza, naturalmente, ha scoperto che la vita, l’umano ha uno spessore che va ben oltre le ideologie.
“Tutto ciò che è disumano è assurdo e inutile, non ha futuro né lascia traccia”. Così dice Vasilij Grossman nel romanzo Tutto scorre, scritto come un sofferto testamento, ripercorrendo le diverse fasi di costruzione del “grattacielo del potere”. Tocca proprio a un ex detenuto – dopo una vita passata nell’illibertà del lager – scoprire che la chiave di volta di sé, dell’uomo e del mondo è la libertà. E la cosa “sorprendente – sottolinea Grossman – è che anche Stalin, sgominata a fondo la libertà, continuasse ad averne paura”. Così si spiega l'”inaudita ipocrisia” del regime: “Che lo Stato senza libertà agisse sempre in nome della libertà e della democrazia, che temesse di fare un passo senza nominarle, testimonia la forza della libertà”.
Una libertà che coincide con l’essenza stessa dell’uomo, dell’umanità, per quanto la si possa calpestare; è lei l'”invisibile zar” che “malgrado la sua volontà – osa affermare Grossman – viveva nella segreta oscurità dell’anima” dello stesso Stalin. Il quale “sino alla fine dei suoi giorni fu incapace, pur con la sua sanguinaria violenza, di venire a capo della libertà, quella libertà in nome della quale era cominciata la rivoluzione russa del febbraio” 1917.
La lucida, spietata diagnosi di Grossman arriva fino a noi, perché la “tragedia di Lenin non fu solo la tragedia della Russia, essa divenne una tragedia mondiale”. La “seducente semplicità della strada della non-libertà” divenne un miraggio anche per l’Occidente, “sbalordì il mondo più della scoperta dell’energia atomica” e determinò l’intero corso del XX secolo. “Lo Stato senza libertà costruito da Stalin vive… Lo Stato continua a essere governato dalla stanza dei bottoni, identicamente illimitato è il potere del dispatcher… Molte cose, indispensabili durante la costruzione, sono diventate ora inutili, ma le fondamenta del grattacielo – la non-libertà – sono come prima, incrollabili”. Una non-libertà, potremmo aggiungere noi, che abbiamo interiorizzato anche laddove non si vedono costrizioni esterne.
Grossman scriveva queste righe in un’epoca buia, braccato e vessato per aver osato parlare di nazismo e comunismo come di totalitarismi paralleli – un’idea tuttora inaccettabile per molti anche in Occidente – e a buon diritto avrebbe potuto fermarsi qui. E invece, no: “La forza della rivoluzione popolare, iniziata nel febbraio 1917, era così grande che neppure lo stato dittatoriale è riuscito a soffocarla… La libertà si andava formando a dispetto di Lenin, che aveva posto tutto il suo entusiasmo nella creazione di un mondo nuovo. Si formava perché gli uomini continuarono a restare uomini”. In questa accanita fedeltà all’uomo e alla libertà che lo costituisce sta la vera laicità, cioè ogni espressione di iniziativa personale, di responsabilità, a livello del singolo e della società.
Per questo i ragazzi scendono in piazza, alla ricerca del proprio “io”; per questo Grossman poteva rinnovare la sua fede nell’uomo e nella spinta autentica della rivoluzione – quella vera, che coincide con la libertà, e non teme di paragonarsi con un’umanità che supera ogni misura, sfugge a ogni definizione: “Per grandiosi che siano i grattacieli e potenti i cannoni, per illimitato che sia il potere dello Stato e possenti gli imperi, tutto ciò non è che fumo e nebbia, destinato a scomparire. Rimane, si sviluppa e vive soltanto la vera forza, con consiste in una sola cosa – nella libertà. Vivere significa essere un uomo libero. Proprio adesso, nell’epoca del trionfo della potenza dello Stato sulla libertà dell’uomo, i pensatori russi dei lager chiusi nei loro giubbotti imbottiti hanno elaborato il principio supremo della storia mondiale: “Tutto ciò che è disumano è assurdo e inutile, non ha futuro, né lascia traccia””.