Nella liturgia di questo periodo di Avvento si intrecciano due fili conduttori, che ruotano attorno alla parola “attesa”. Il primo – di gran lunga il più evidenziato nei commenti che si sentono dai pulpiti – riguarda la venuta del Messia, l’imminente nascita a Betlemme di quel bambino che avrebbe cambiato il corso della storia. L’altro – molto meno richiamato per non dire quasi del tutto obliterato – parla del secondo e definitivo ritorno di Cristo, dell’evento, cioè, che porrà fine alla storia umana come la conosciamo per aprirne la prospettiva definitiva. I primi cristiani avevano molto più presente di noi questo secondo aspetto e quando pregavano “Vieni, Signore Gesù” non chiedevano solo un suo rendersi in qualche modo più presente nella vita personale e comunitaria, ma proprio il suo ritorno glorioso e definitivo.
Ritorno che coinciderà con un giudizio su tutti gli uomini che hanno attraversato la storia. “Donna, voi capite bene: quando le anime dei morti / torneranno a cercar nelle parrocchie antiche, / dopo tante battaglie e fra angosce infinite / quel poco che resterà dei loro poveri corpi; / quando l’immensa dimora dei vivi e dei morti / altro non potrà mostrar che la sua decrepitezza, / saprete mai accender in quella desolazione / una povera lanterna che apra un varco?”. Sono versi dall’immenso poema Eva di Charles Péguy in cui Cristo parla alla nostra progenitrice, emblema del genere umano, e le chiede cosa potrà mai fare, con le sue forze, in quel momento culminante della storia in cui ogni azione umana verrà valutata nella sua proporzione all’eternità.
È interessante notare che il poema di Péguy è uscito esattamente cent’anni fa, per la precisione il 28 dicembre 1913; così come cent’anni fa usciva il primo volume della Recherche di Marcel Proust. Anniversario, quest’ultimo, ampiamente celebrato nel nostro mondo culturale, mentre temo che quello di Eva passerà assolutamente inosservato. Entrambi riflettono sul tema del tempo, ma per Péguy non si tratta di focalizzarne la dinamica psicologica, bensì di indagare il valore oggettivo di tutta la storia, così come ci è data.
Essa è fatta di un inizio di positività assoluta: la creazione buona come è uscita dalle mani del creatore, quando “l’ancor giovane corpo era così casto / che lo sguardo dell’uomo era un lago profondo. / E il gaudio dell’uomo era così vasto / che la bontà dell’uomo era un pozzo senza fondo”. È fatta poi di una caduta tanto incomprensibile quanto evidente, una rovina che ha indirizzato il tempo verso una china inesorabilmente declinante. In questo tempo della storia l’umanità decaduta, cioè Eva, non può far altro che cercare di mettere a posto affannosamente tutto quello che non funziona.
Sforzo vano: “Voi accomodate il tempo, quand’è già fuggito. / O donna medico e donna infermiera, / voi asciugate il sangue, quand’è già versato. / Voi vedete una distesa di mediocrità immensa. / E la banalità che sommerge tutto interamente”.
Ma nella storia un evento ha invertito la rotta declinante del tempo: esattamente la prima venuta di Cristo, il Natale, l’incarnazione. “E Gesù è il frutto d’un materno seno, / Fructus ventri tui, il tenero neonato / dorme nella paglia, la pula e il fieno profumato, / le ginocchia piegate sotto il suo ventre terreno”. Allora anche il giudizio finale non fa più paura: “Signore, che li avete modellati con quella terra, / non meravigliatevi se li trovate terrosi. / Voi che li avete consegnati ai vermi della terra / non meravigliatevi se dentro son bacati”. Non meravigliatevi perché “è carnale anche il soprannaturale”.