Dopo otto mesi in Spagna ci sarà un nuovo Governo. Salvo imprevisti, infatti, il nuovo esecutivo si insedierà a fine agosto o a inizio settembre. Si chiuderà così la crisi politica più lunga da quando è tornata la democrazia nel 1975. La mossa di Ciudadanos sarà probabilmente decisiva per uscire dall’impasse, dato che ha presentato a Mariano Rajoy sei condizioni, fondamentalmente incentrate sulla lotta alla corruzione, in cambio dell’appoggio dei suoi 32 deputati. Si tratta di condizioni perfettamente accettabili dal partito vincitore alle elezioni. Il leader dei popolari si è preso comunque alcuni giorni per non sembrare disposto a cedere subito alle richieste. Potrà così presentarsi in Parlamento con il sostegno di 170 deputati, sei in meno rispetto a quelli necessari a governare, ma sarebbe incomprensibile se i socialisti non facilitassero la formazione del Governo, vista la situazione.
La crisi più urgente potrà quindi essere risolta, ma restano due problemi di fondo che ostacolano la vita democratica: l’ideologizzazione della politica che impedisce l’avvicinamento all’altro e un sistema di partiti distante dalla vita sociale. Se non verranno affrontati questo lungo periodo di attesa sarà stato vano.
La formazione di un Governo, che sarà per forza debole, permetterà di affrontare le tante questioni aperte. La Spagna è l’economia che più cresce tra le principali europee. Il sistema bancario è solvente e il suo risanamento è stato uno dei grandi successi del Partido popular nella passata legislatura. Ma gli investimenti sono stati posposti per l’incertezza e il tasso di disoccupazione è ancora elevato. Nonostante quel che si crede, si crea lavoro a un ritmo vicino al 3%, ma la disoccupazione resta al 20%. Occorre fare molte riforme in ambito economico, educativo, amministrativo e fiscale. Bruxelles ha concesso due anni in più alla Spagna per portare il deficit sotto il 3% del Pil. Non sarà difficile, ma c’è bisogno di un Governo per riuscirci. E occorre un Governo anche per rispondere con più efficacia al progetto di secessione della Catalogna che è in fase avanzata.
L’esecutivo non dovrà dimenticarsi che la crisi politica non è cominciata dopo le elezioni del 2015, ma è venuta a galla con le manifestazioni degli indignados del 2011. Sono state la punta dell’iceberg di un ampio rifiuto del sistema partitico creato dopo la morte di Franco. Persino tra i votanti più conservatori questo rifiuto si è fatto strada lungo l’ultima legislatura. Tra il 2011 e il 2015, i popolari hanno perso oltre 3,5 milioni di voti non solo per via dei sacrifici richiesti per uscire dalla crisi, ma anche per la partitocrazia e la corruzione, l’eccessiva tecnocrazia e la mancanza di un’anima culturale nella politica di centrodestra. Nel 2015 il bipartitismo non è sparito, ma i votanti hanno cercato un’alternativa. Le due nuove formazioni (Ciudadanos e Podemos), anche se non sono forti come si pensava, sono entrate in Parlamento e hanno condizionato la formazione delle maggioranze. La mancanza di flessibilità dei vecchi partiti ha fatto il resto.
C’è qualcosa che ha favorito questa situazione nel sistema istituzionale della democrazia spagnola. Essa appartiene a quella che Huntington definisce la terza ondata di democratizzazione. La prima si verifica all’inizio del XIX secolo come eredità delle rivoluzioni francese e americana. La seconda è quella che arriva dopo la Seconda guerra mondiale e la terza vede protagonisti Portogallo, Spagna e Grecia. Dal Mediterraneo si sposta poi all’America Latina e all’Asia Orientale. La terza ondata democratica, disposta a correggere gli errori delle precedenti, e il brutto ricordo della Seconda Repubblica, hanno fatto sì che si cercasse soprattutto la stabilità istituzionale.
Il sistema elettorale, quindi, è stato fatto con il sistema maggioritario, specie nelle circoscrizioni con poca popolazione, che si sono ritrovate ad avere un grande peso. È stata favorita la creazione di un sistema di partiti forti, che sono rimasti chiusi in se stessi. I deputati non hanno bisogno di ascoltare le richieste sociali, non dipendono in forma diretta dagli elettori. Si fa carriera nel partito senza bisogno di andare nelle strade tra la gente, ascoltando le associazioni civiche. Le proposte e il posizionamento ideologico non vengono dal basso verso l’alto. La base conta poco. Sono i “guru” demoscopici a “disegnare” il “prodotto politico” che può essere venduto meglio. Si è formato così n circolo vizioso: la debole società civile, eredità della dittatura, non ha interlocutori politici e i politici non hanno interessi al dialogo sociale.
Da una tale situazione non si può uscire con i buoni propositi. Urge una riforma del sistema elettorale che “inviti” i politici a stare tra la gente. Delle sei richieste di Ciudadanos al Pp, la più interessante è quella che chiede di superare il sistema delle liste chiuse e bloccate. La Costituzione spagnola non consente liste aperte, ma è permesso un sistema elettorale come quello tedesco, che è complesso nell’assegnazione dei seggi, ma è semplice per l’elettore. Il quale dispone di due voti, uno per una lista chiusa e l’altro per scegliere direttamente un deputato (seggio uninominale) in ogni circoscrizione. Alla fine la composizione del Bundestag dipende (con ugual peso) sia dai voti diretti che da quelli delle liste chiuse. Questo toglie potere ai partiti, obbliga una parte importante dei deputati a stare tra la gente.
Senza tornare a collegare la politica con la vita sociale, presto o tardi il populismo che ora è “accovacciato” avanzerà.