Non ci sarà alcun referendum sull’indipendenza della Catalogna nel novembre 2014. Questo però non è il vero problema, almeno nel breve termine. Attualmente la vera minaccia è l’ideologia crescente in una Comunità autonoma che si è sempre distinta per il suo buon senso. Il Presidente della Generalitat, Artur Mas, ha sorpreso tutti la settimana scorsa quando ha annunciato di aver trovato l’accordo con le forze politiche catalane per andare a votare. Sembrava impossibile che potessero trovare un consenso sui quesiti. E difatti si è scoperto presto che ognuna ha un posizione diversa: Unión vuole votare, ma non chiede l’indipendenza; Convergencia vuole votare per ottenere l’indipendenza, ma con un riconoscimento giuridico; i repubblicani di Erc (Sinistra repubblicana di Catalogna) e tutti gli altri partiti vogliono sia il voto che l’indipendenza, anche senza riconoscimento se necessario.
In realtà, il Governo della Generalitat sa bene che non si voterà. Per fare un referendum occorrono le liste elettorali ufficiali e lo Stato non ne permetterà l’uso. Nella Costituzione non è prevista una consultazione riguardo una secessione unilaterale. Quindi, se venisse convocata con un atto ufficiale, non sarebbe necessario ricorrere alla Corte Costituzionale per fermarla, ma basterebbe l’intervento di un tribunale ordinario o della Giunta elettorale centrale. E le cose non cambierebbero nemmeno se alla fine si decidesse di convocare la consultazione attraverso una legge catalana e con delle liste elettorali create ad hoc per l’occasione.
Poiché Artur Mas tutto questo lo sa, il suo annuncio della scorsa settimana non ha altro scopo che cercare di porre rimedio alla sua debolezza politica e di aumentare il “vittimismo” nei confronti di Madrid per far crescere il numero di persone favorevoli all’indipendenza. Quel che gli interessa in realtà sono le elezioni che indirà dopo che il Governo di Madrid dirà no alla consultazione catalana. Vuole presentarsi come l’uomo che ha fatto tutto il possibile per la “liberazione del popolo catalano”. L’agenda politica torna quindi a imporsi sulla vita sociale.
La società catalana è divisa, il desiderio di indipendenza non è ancora maggioritario. Tutti i sondaggi mostrano che in questo momento i voti favorevoli alla secessione sarebbero tra il 35% e il 40%. La percentuale diminuisce quando si evidenzia che essa comporta l’uscita dall’Ue. Il risultato in ogni caso sarebbe inferiore a quanto richiesto in Scozia (nel Regno Unito occorre almeno il 40% dei voti degli aventi diritto) e in Quebec (in Canada serve la maggioranza tra il 51% e il 60% dei voti espressi), i casi che sembrano più vicini a quello catalano.
Un’altra questione importante è quello che potrà accadere a partire dal 2015 o dal 2016: l’indipendentismo radicale guadagnerà sempre più terreno nel governo catalano e aumenterà la sua pressione. Sfortunatamente l’evidenza di quanto positiva sia stata la vita insieme negli ultimi 500 anni si sta dissolvendo in gran parte della popolazione a causa dell’educazione nazionalista. E prima o poi Madrid dovrà trovare una soluzione costituzionalmente valida che rispetti il principio della sovranità nazionale. In questo senso la sentenza della Corte Suprema del Canada del 20 agosto del 1998 può essere un buon riferimento. La Corte ha chiarito che la secessione non poteva essere unilaterale, ma che il Canada poteva, nell’esercizio della propria sovranità, concederla al Quebec se si fosse espressa una chiara maggioranza a essa favorevole. La Legge della chiarezza, promulgata nel 2000, ha fissato una soglia alta.
Quel che è successo la settimana scorsa ha avuto comunque un effetto positivo. Dopo tanto tempo, i due partiti principali, Psoe e Pp, si sono pronunciati nello stesso modo. Tanto il Premier, quanto il leader dell’opposizione hanno difeso con forza l’unità della Spagna e hanno negato il diritto all’autodeterminazione: è da tanto tempo che non succedeva una cosa simile nella vita politica spagnola. Non è questo il momento perché i due partiti promuovano una riforma della Costituzione del 1978, ma, più avanti, questo accordo potrebbe rivelarsi utile per fare chiarezza sul modello territoriale del Paese, che presenta tutti gli svantaggi, ma nessuno dei vantaggi, del sistema federale.
Per provare a dare una soluzione “sovrana” al problema catalano, la risposta non può essere solamente giuridica. Se i successivi governi di Madrid vorranno, come sembra voler anche la maggioranza degli spagnoli, che la Catalogna “non se ne vada”, dovranno lavorare sul piano culturale. Cosa che finora è stata molto trascurata.
In questo contesto, a soffrirne è la convivenza quotidiana tra gli stessi catalani. La difesa di una Catalogna indipendente e la difesa di una Catalogna spagnola si fa, spesso, in termini così ideologici che il “paesaggio umano” ha finito per rimanerne contaminato. L’unità è un valore, ma non si può sostenere solo invocando dei principi che per molti sono ormai assolutamente astratti. Per questo è urgente l’incontro reale tra le persone non per discutere su chi abbia ragione, ma per domandarsi, l’un l’altro, com’è possibile vivere insieme, anche quando la si pensa diversamente.
Questa è una questione più importante delle formule giuridiche o politiche che si possono trovare per la Catalogna. In realtà, è la “grande questione”: per i catalani è urgente incontrarsi sul terreno della vita, nel dialogo sulle ragioni che permettono di lavorare, costruire, fare impresa, andare verso il mondo, educare i figli, generare prosperità. Così facendo si potrebbe rendere respirabile un clima che a volte è troppo asfissiante.