La Comunicazione della Commissione europea del 12 gennaio scorso “Analisi annuale della crescita”, mentre prende atto che “la ripresa procede con sempre maggior vigore e a ritmo sempre più sostenuto”, chiede agli Stati membri un impegno forte.
“Ora che le prospettive iniziano a migliorare, s’impone un’azione politica risoluta”. E spiega in modo molto chiaro: “Pur essendo condicio sine qua non per la crescita, il risanamento finanziario non basta a stimolarla. In mancanza di politiche proattive, la crescita potenziale rimarrà probabilmente modesta nel prossimo decennio. Per la crescita sarà essenziale avere un contesto favorevole all’industria e all’impresa, in particolare alle Pmi. In mancanza di crescita, il risanamento di bilancio risulta ancor più problematico”.
Lo Statuto delle Imprese, che oggi si inizia a votare nell’Aula di Montecitorio, va esattamente nella direzione suggerita dall’Unione europea, ovvero punta alla creazione di un ambiente esterno in cui fare impresa sia gratificante o, quantomeno, non ostacolato da parte dello Stato e della Pubblica Amministrazione.
C’è in Italia un grande paradosso: siamo il Paese con il più alto tasso di imprenditori e, allo stesso tempo, anche uno di quelli in cui è più difficile fare impresa. A questo riguardo il rapporto Doing Business della Banca Mondiale ci colloca al 78° posto, dietro alla Cina. Se vogliamo agganciare la crescita, non possiamo non porci il problema di come mettere le nostre imprese in grado di competere. Infatti, le energie per fare crescere il Pil e l’occupazione del Paese stanno innanzitutto nei nostri imprenditori.
Spesso viene imputata al nostro sistema produttivo la “colpa” della debole crescita del Pil e non si guarda, invece, ai fattori esogeni all’impresa, quei fattori ambientali che costituiscono una condizione decisiva per la competitività, che è sempre più di sistema. Abbiamo sentito per anni demonizzare l’“anomalia italiana” da parte di certi guru che volevano spiegarci che le nostre imprese erano mortalmente ammalate di nanismo e di familismo e incapaci di comprendere le magie della finanza. Per fortuna, all’avvento della crisi, hanno dovuto cambiare refrain.
Tutti in Italia hanno dovuto riconoscere che l’anomalia, il problema non è il nostro tessuto produttivo, ma il fatto di non credere in esso sino in fondo. Ma anche ora non possiamo pensare che la crescita possa avvenire per decreto. Né, come sovente capita di sentire, pensare che essa sia semplicemente l’esito della quantità di risorse pubbliche che possiamo mettere in campo. Pure nella politica economica occorre innanzitutto sussidiarietà. Occorre riconoscere il positivo che c’è, valorizzarlo e sostenerlo.
Sono queste le linee sulle quali si muove lo Statuto. Esso mira innanzitutto al riconoscimento, non solo economico ma anche sociale, dell’impresa, del suo contributo essenziale al benessere generale. Si tratta di una visione positiva dell’imprenditore, improntata alla fiducia e non a quel sospetto che ha determinato per decenni la legislazione italiana e ha prodotto quei lacci e laccioli che, oggi, sono un freno insostenibile nella competizione globale.
Per questo, nello Statuto si rafforza il principio del silenzio assenso, della responsabilità sugli atti della Pubblica Amministrazione e si riduce fortemente la discrezionalità dell’apparato pubblico. In secondo luogo, si intende invertire il paradigma che ha guidato le politiche per le imprese, passando da “quello che va bene alla grande industria va bene all’Italia” a “quello che va bene ai piccoli va bene all’Italia”; non per culto del “piccolo è bello”, ma per realismo: “piccolo è quello che c’è”.
Per questo viene introdotto il principio di proporzionalità delle norme (con oneri minori e tempi di adeguamento più lunghi per le piccole imprese), si interviene sulla normativa del fallimento per salvare l’indotto, vengono rese più stringenti le norme sui tempi di pagamento e si allargano i poteri dell’Antitrust introducendo, infine, una Commissione bicamerale e un Garante per le piccole e medie imprese.
Un’ultima sottolineatura merita il consenso bipartisan registrato sulla proposta di legge. In un clima politico in cui sembra possa esistere solo lo scontro, questa volta il Parlamento dimostra di saper essere unito per il bene del Paese. Succede di rado, ma avviene di regola quando l’ottica con cui si affrontano i problemi e si costruiscono le soluzioni è la sussidiarietà.