Metti un autista senegalese di autobus…

La storia di Aida, senegalese, musulmana, da trent'anni in Italia, si intreccia con le nostre. Deve la sua vita alla carità di qualcuno. E vive secondo carità. MAURIZIO VITALI

Mentre Salvini e Di Maio si danno appuntamento al Pirellone… la vita va avanti. In una corte di un paese della Martesana — 20 chilometri dall’albero di trenta piani di Giò Ponti, culla, forse, del nuovo governo — una cinquantina di persone si raccontano cosa stanno facendo per aiutare i poveri e cercano di aiutare se stessi a comprendere che cos’è davvero la carità.

Le due cose c’entrano come i cavoli a merenda? Calma. C’entrano.

Il gruppo è di bianchi, italiani, cattolici. Gesù Cristo, la solidarietà: certo. Ma non come un già saputo: come un’appassionata scoperta di come ci si educa, a venti come a settant’anni, alla gratuità in tutti i rapporti. Una robetta di cui non è che l’Italia non abbia bisogno.

Nel gruppo c’è anche Aida. Senegalese, un metro e ottantacinque di grazia e bellezza nera. Chi lo direbbe che ha cinquant’anni. In Italia da trenta, ne ha passate di ogni, ha sempre lavorato sodo, ha tirato su un figlio. Ha anche incontrato chi le ha dato una mano e la fiducia. Tutti i santi sabati si dà da fare in un “banco di solidarietà” a preparare i pacchi di alimenti per i bisognosi, quello dei cinquanta sullodati. Quando gli altri dicono l’Angelus, sta lì con loro, in silenzio misteriosamente partecipe, lei che è di religione musulmana. Non ha mai parlato in pubblico.

Adesso chiede la parola. Dal suo cuore riversa nel cuore degli altri l’intimo della sua storia, anzi della sua sorgente. Il papà. Orfano del babbo prima di venire al mondo. Orfano anche della mamma a un anno e mezzo. Lo prende in carico uno zio. Ma, anno dopo anno, si trova sempre meno bene. A un certo punto se ne va, lascia lo zio e il villaggio dov’era vissuto. Se ne va con una gallina che, venduta al mercato, gli dà quanto occorre per pagare il biglietto per Dakar. Un sacco di riso sulla spalle come zaino. Nella capitale spalanca gli occhi di stupore per i palazzi alti mai visti e dorme per strada. Vive di elemosina. Nei pressi della stazione degli autobus si offre di portare i bagagli ai passeggeri, tipo quelli che si offrono di metterti a posto il carrello nel parcheggio del supermercato, tenendosi l’euro.

Un giorno l’autista di un bus salta giù dalla cabina e gli chiede chi è, che fa, dove dorme, cosa mangia. “Tu aspettami, ci vediamo quando finisco il turno”. L’autista arriva davvero. Lo porta a casa sua, a pranzo, alla tavola con moglie e figli. Una, due, tre volte; tante volte. Lo spinge a prendere la patente di guida dei camion, lo sostiene finché il ragazzo diventa camionista e comincia a guadagnare qualcosa. Qualcosa con cui paga la camera dove alloggia, paga il pranzo che una signora gli prepara e risparmia il resto fino a comprare una casetta dove mette su famiglia. Vita dura, lavoro rischioso. Le strade sono un disastro. Ci sono ponti precari, di legno malandato, da attraversare lentissimamente sperando che non crollino, con i familiari che trepidano a casa e pregano. Fa la sua vita ma alla sua vita l’autista dell’autobus ha impresso il marchio di qualità. Vuole essere come lui. Prima di mettersi a tavola, sempre!, butta uno sguardo per strada: se c’è in giro un povero che non ha da mangiare, viene messo a sedere a tavola con gli altri.

Venuta in Italia, Aida attraversa momenti di difficoltà e incontra gente — sconosciuta — che l’aiuta con lo spirito del suo papà. Per questo l’amicizia con queste persone le fa dire “sono la mia famiglia”. Fino a dedicare il pomeriggio del sabato a un’opera di carità: “Vengo e torno a casa contenta. Se non venissi mi mancherebbe qualcosa e non mi sentirei a posto”.

Attraverso persone con il cuore cambiato, come l’autista di autobus senegalese (emissario della Provvidenza), si introduce una novità nel mondo. La possibilità di un’esperienza, cioè non di discorsi, ma di un impegno positivo di sé con la realtà, con il desiderio di qualcosa di più grande. E’ il percorso dell’educazione: della persona come di un popolo.

Adesso faccio un salto che sembrerà di sicuro pindarico, ma sono convinto che non lo è.  Molti osservatori stanno in questi giorni considerando con un po’ di strizza che l’Italia un governo bene o male lo sta rabberciando, ma avvertono che occorre ricostruire una classe dirigente. Affare più serio e complesso che insegnare il congiuntivo a Di Maio e il bon ton a Salvini. E’ affare di un training “dal basso”, diciamo pure gavetta, fatto di umile gratuito coinvolgimento con la realtà. Altri — come Sabino Cassese — non hanno nascosto la responsabilità dell’informazione, la quale enfatizzando il cicaleccio quotidiano della cronaca politica, non ha aiutato la comprensione della complessità e serietà dei problemi, assecondando e alimentando il populismo semplicione del popolo.

Oso dire queste cose dopo aver letto quanto ha scritto Giorgio Vittadini nell’editoriale di venerdì scorso (“Quello che Marx non sapeva”): egli indica nell’esperienza di un santo sociale come padre Pernet e delle piccole suore dell’assunzione un “esempio di grande umanità e grande fede che mostra quale debba essere la priorità e l’urgenza nei confronti delle persone”. Poi ci sarà anche chi, prosegue Vittadini, potrà elaborare la proposta di un modello economico diverso dall’attuale.

Condivido. E dunque oso dire che seguire un autista di bus senegalese può essere meglio che applicare il vangelo di McKinsey o le furbate di un qualche sedicente e strapagato guru della comunicazione o della rete.

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