Lo sapevamo già da prima che sarebbe tornata. Eppure, adesso che è qui, rimaniamo stupiti. La primavera ci sorprende con quel piacevole tepore di cui c’eravamo dimenticati nel rigido inverno, con quella luce strana che ridona nettezza alle cose, con quella specie di allegro prurito che fa venir voglia di fare chissà che, con quella incipiente fioritura che trasforma la vegetazione.
È proprio quest’immagine della gemma primaverile ad aprire Il mistero dei santi Innocenti, che Charles Péguy ha pubblicato il 24 marzo, esattamente cent’anni fa. «Quando si vede l’albero, quando guardate la quercia, quella rude scorza della quercia tredici e quattordici volte centenaria, quando vedete tanta forza e tanta rudezza la piccola gemma tenera non sembra proprio più nulla. Eppure è da lei che tutto viene invece. Senza quella gemma, che ha l’aria di non essere nulla, che non sembra nulla, tutto questo non sarebbe che del legno morto. E il legno morto sarà gettato nel fuoco». E, infatti, quella gemma non è nient’altro che l’immagine della speranza, la piccola bambina da niente che il poeta di Orléans aveva già lungamente cantato nel precedente Portico del mistero della seconda virtù.
È proprio la speranza che ci sorprende a primavera; è l’intuizione anche confusa che una ripresa, una rinascita sia ancora e sempre possibile. Péguy avverte però che tutto questo non è ovvio, perché «la gemma non resiste sotto le dita e con un colpo d’unghia il primo venuto la fa saltar via. Perché è più facile, dice Dio, rovinare che fondare. E far morire che far nascere. E dar la morte che dar la vita». È facile tradire la speranza della primavera: basta cinicamente arrestarsi alla considerazione che tornerà l’inverno e i rami ora fioriti si spoglieranno di nuovo e saranno d’una stagione più vecchi; basta lasciarsi superficialmente andare all’onda primaverile – cogliere l’attimo fuggente– senza domandarsi a che cosa inviti e come possa permanere; basta ridurre tutto ad una ciclicità biologica di cui, come ogni altro animale, anche noi uomini saremmo schiavi.
Quando però si evitano le strettoie del cinismo, della istintività e della superficialità, si scopre, con Péguy, che «ogni vita viene dalla tenerezza». Tenerezza indica senz’altro che la verità dell’esistenza non è nella rigidità delle analisi, degli schemi, dei ragionamenti; tutto questo è legno secco. Tenerezza indica anche che non ci può dare speranza la durezza degli sforzi morali, anche i più nobili; e, infatti, subito dopo Péguy scrive che a Dio non piace l’uomo che non dorme perché sempre preoccupato di quel che deve fare o di come migliorarsi; preferisce chi si abbandona, come un bambino che s’addormenta subito.
Ma tenerezza indica soprattutto un dono, che cioè la speranza è una linfa che fluisce inesauribile da una nascosta radice di certezza, la certezza in un padre che guarda intenerito il bambino che si addormenta. E infatti, come Péguy aveva detto nel Portico: «Per sperare, bimba mia, bisogna essere molto felici, bisogna aver ottenuto, ricevuto una grande grazia».