Non è una buona estate per parlare di un tema come quello del Meeting “Tu sei un bene per me”. È stata un’estate di terrore (Nizza, Normandia, Baviera, Aleppo, ecc.), non sarebbe stato meglio parlare d’altro? Con tutta l’Europa sotto shock di fronte agli attacchi del jihadismo, con la Francia e la Germania che vedono le elezioni alle porte, con un nazionalismo radicale in forte crescita, con la coalizione internazionale che sta finalmente avanzando in Siria e in Iraq, con l’avvicinamento dei vecchi imperi di Turchia e Russia, con un populismo crescente negli Stati Uniti e le elezioni presidenziali in cui Trump può arrivare alla Casa bianca, con una riforma costituzionale italiana vicina, con un ordine internazionale che si è lasciato alle spalle il sistema di stati sovrani di Wetsfalia senza sapere dopo 400 anni verso quale direzione sta andando: viste tutte queste circostanze, non sarebbe stato conveniente modificare il titolo?
Sarebbe stato possibile farlo giorni od ore prima dell’apertura, ma il messaggio di papa Francesco al Meeting, con un giudizio storico molto forte sulla radice di quel che è accaduto nelle ultime settimane nel mondo, ha reso impossibile qualsiasi “fuga”. Dopotutto il Meeting si chiama “per l’amicizia fra i popoli”.
“Di fronte alle minacce alla pace e alla sicurezza dei popoli e delle nazioni, siamo chiamati a prendere coscienza che è innanzitutto un’insicurezza esistenziale che ci fa avere paura dell’altro, come se fosse un nostro antagonista”, ha evidenziato Francesco. La chiave per capire il “cambiamento epocale”, la violenza jihadista, la risposta balbettante dell’Europa che non sa come affrontare la situazione, un populismo e un nazionalismo alimentati dalla globalizzazione, è “un’insicurezza esistenziale”. Insicurezza che si esprime nella presunzione di salvarsi da soli, nella dialettica del nemico. Il messaggio di Francesco al Meeting difficilmente consente un’interpretazione spirituale o buonista dell’affermazione “Tu sei un bene per me”.
Non sembra del resto che gli organizzatori abbiamo cercato di alimentare questo tipo di interpretazione. Il Meeting di Rimini ha chiaramente voluto scommettere su un “un’antropologia relazionale”. In politica, nella cultura, nella religione. Ma diciamolo subito: a questo punto, a metà di questa edizione del 2016, sarebbe stato un clamoroso fallimento se il Meeting si fosse semplicemente dedicato a difendere il valore dell’altro. Va bene contrastare la narrativa dell’identità conflittuale generata dalla globalizzazione, ma non si costruiscono discorsi in favore del valore della persona e del rispetto degli altri senza per certi versi cadere nel ridicolo o senza alimentare un certo scetticismo. Quando l’altro è il capro espiatorio a cui si fa pagare l’insoddisfazione di non sapere dove sta andando il mondo, persino il discorso più giusto, moralmente perfetto, stanca.
Quel che fa la differenza al Meeting, forse in modo inconsapevole, è che il valore dell’altro, prima che essere teorizzato, pensato o difeso, accade. Il Meeting sta ponendo davanti a migliaia di persone i protagonisti di un mondo in transizione che hanno usato la risorsa rappresentata dall’altro per sviluppare una grande statura umana.
La necessità dell’altro è sempre teorizzata da un sistema chiuso come un qualcosa in più che non è in grado di superare la chiusura dei sistemi ideologici. A meno che non si veda in atto testimoni che hanno costruito la propria personalità accogliendo come una ricchezza gli altri volti. Altri volti con un pensiero e un’affettività differente, che possono persino avere un’apparenza ostile. Se il valore dell’altro accade, si può fare una cultura nuova, senza moralismo.
Alla fiera di Rimini in questi giorni ci sono tanti esempi che mostrano questo “accadere dell’altro”. Possiamo soffermarci su quello che fa riferimento a uno degli ambiti più “conflittuali”: il rapporto con l’Islam. Tra gli appuntamenti internazionali dei primi giorni del Meeting si è parlato di Tunisia e Arabia Saudita. La Tunisia è il Paese che resiste dopo lo scoppio delle primavere arabe, mentre l’Arabia Saudita è quello che da decenni produce un wahhabismo violento, padre e nonno dell’attuale jihadismo.
Il premio Nobel tunisino Fadhel Mahfoudh ha raccontato com’è stato impedito agli islamisti di appropriarsi della rivoluzione: molti tunisini hanno saputo difendere il processo di democratizzazione in nome di un islam che rifiuta l’integralismo. Camillo Ballin, vicario apostolico dell’Arabia settentrionale, ha parlato delle restrizioni quasi assolute della libertà religiosa che ci sono nella sua regione. Ballin ha raccontato come il cristianesimo in questo momento arrivi nella terra della Mecca, che dovrebbe essergli preclusa, attraverso un’ironia della storia, ovvero i lavoratori asiatici che sono trattati come schiavi. “Ho dedicato dedicato 47 anni all’Arabia, ai cristiani e ai musulmani e non ho altro che gratitudine”, ha detto Ballin. Un milione di motivi per considerare il wahhabismo come nemico mortale, ma egli non ha ceduto ad alcuno di essi. Ballin obbedisce al modo in cui il Mistero rende presente il cristianesimo lì, attraverso gli schiavi.
Solamente testimoni come lui danno peso a un tema che altrimenti potrebbe sembrare una bella frase scritta sull’acqua.