Chi ha fatto l’Italia? Le narrazioni che si sono succedute all’avvicinarsi dell’anniversario e culminate nella giornata di festa di ieri, restituiscono un quadro dominato dai grandi personaggi del Risorgimento per metterne o in luce virtù e torti. Non sono mancati spunti di attualità, relativi al dissenso soft della Lega verso la festa e l’enfasi sulle divisioni che ancora albergano nel Paese.
La celebrazione si è, dunque, consumata tra il ricordo delle gesta e il discredito, tratti accomunati da un elemento di fondo mai espresso ma neppure mai esplicitamente negato: l’unità dell’Italia è stata un affare dei potenti, un affare di interessi politici ed economici calati dall’alto sulla testa del popolo, incosciente e non partecipe, lontano dai palazzi dove venivano prese le grandi decisione sulle sorti del territorio, un territorio segmentato sotto i vari governanti e solo marginalmente unito dalla lingua, dalla storia, dalla religione e da un nome che, come tutti sappiamo, altro non era considerato dai grandi se non un’espressione geografica.
Al binomio segmentazione-unificazione sembra non si possa opporre nulla; e nulla si potrebbe opporre se lo sguardo dell’interprete non forasse la cortina della storia fatta dal potere per guardare oltre, e leggere nella realtà del popolo italiano quanto ne stava determinando la vita. Di che cosa viveva il popolo italiano di quei decenni (domanda che potrebbe essere buona anche per il presente)? Forse di fattori poco noti alla storiografia ufficiale ma potentemente incidenti sulla sua identità quali le realtà comunali, le opere caritative e sociali in cui si esprimeva il suo profondo senso di una solidarietà, le presenze di santi e di realtà comunionali quali le parrocchie, i santuari, le feste, i canti, la pietà popolare.
Certo, queste espressioni del popolo italiano non avevano nella maggior parte dei casi un respiro nazionale; nella maggior parte dei casi esse restavano confinate all’ambito regionale o locale, dentro un municipalismo che non ha mai smesso, neppure oggi, di caratterizzare la nostra appartenenza al tutto. Eppure non si può dire che i molti particolari non fossero, in qualche modo, connessi, secondo una logica che non è stata solo il prodotto creato dall’azione del potere; si può invece dire e anzi si deve dire – mutuando le parole del Papa indirizzate al Presidente della Repubblica per l’occasione, che “l’unità d’Italia non è stata una artificiosa costruzione politica di identità diverse ma il naturale sbocco politico di una identità nazionale forte, sussistente da tempo e formata da tante identità particolari”.
È difatti quanto mai pregnante quanto è stato messo in luce sempre dal Pontefice, quando davanti ai Comuni d’Italia ha affermato che “unita e pluralità sono due valori che si arricchiscono mutualmente se tenuti nel giusto reciproco equilibrio”, un equilibrio che si assesta nel momento in cui i due valori portanti della sussidiarietà e della solidarietà sono considerati come fondanti per una compagine nazionale, sia sul piano delle istituzioni sia su quello della realtà sociale.
Ascoltando la sua voce, infinitamente più convincente del rumore prodotto da tanto formalismo scettico, non importa se concorde o meno circa il valore dell’unità nazionale, si può riscoprire oggi il senso più profondo del nostro essere popolo: gente con storia, lingua, arte e figure di riferimento profondamente radicate in una tradizione che, senza negare nulla di sé, ha sempre dato spazio al diverso, considerandolo parte arricchente di un cammino al destino che tutti ci unisce. È questa tradizione – e non i progetti del potere – che ha fatto (e sta ancora facendo), dopo l’Italia, anche gli italiani.