Una decina di giorni fa mi trovavo in viaggio per la Russia con un gruppo di amici e il nostro itinerario “sulle tracce dei grandi scrittori russi” ci ha portato fino a Šamordino, un monastero ortodosso immerso nel verde della campagna russa – un’oasi di pace e di bellezza, dove edifici del XIX secolo costruiti nello stile neorusso si alternano a casette di legno e ad aiuole traboccanti di fiori – e nella grande chiesa monastica, tenuta nel perfetto lindore tipico delle suore, oltre alle tradizionali icone dipinte spiccano immagini ricamate con perline e lustrini.
In realtà, questo luogo idilliaco visse nei circa due secoli della sua esistenza pagine sante e drammatiche, che lo portarono alla ribalta della vita religiosa e sociale della Russia, prima di essere chiuso e mandato in rovina durante l’epoca sovietica: basti pensare che il suo fondatore fu lo starec Amvrosij, immortalato da Dostoevskij in alcuni tratti del monaco Zosima dei Fratelli Karamazov, e che fece qui la sua definitiva scelta di vita la sorella di Tolstoj, Marija Nikolaevna, per molti versi il prototipo di Anna Karenina per la sua vita turbolenta, con un finale tuttavia ben diverso dall’eroina del romanzo. Di qui, alla vigilia della morte, dopo un intenso colloquio con la sorella suora, partì Lev Tolstoj, diviso tra il proposito di concludere i suoi giorni nella pace di un monastero e l’impossibilità di accettare nella sua integralità il messaggio cristiano…
Fin qui la storia. Ma il memoriale che ci aspettavamo di vedere si è inaspettatamente animato in un “oggi” che ha preso i lineamenti della matuška che ci ha accolto e ci ha condotto per il monastero, inizialmente un po’ riservata – come davanti all’ennesimo gruppo di turisti curiosi – e poi sempre più coinvolta con il nostro interesse: rivisitare la tradizione per scoprirne l’attualità, il significato per l’uomo d’oggi.
La gioiosità non artefatta della sua espressione ci aveva fin dall’inizio “insospettito”, e così – parallelamente alla storia del monastero e alle vicende di Tolstoj – attraverso le nostre domande si è dipanata la storia di suor Nektarija, evidentemente felice della sua vita in monastero, che dura dal 1994, quando vi ha fatto ingresso subito dopo essersi laureata in filosofia all’MGU, l’Università Statale di Mosca, il più prestigioso ateneo del paese, ma anche, per decenni, la culla del marxismo-leninismo.
Guardando questa donna felice è superata di colpo la dicotomia tra Chiesa e cultura, che era uno dei dogmi dell’epoca sovietica, ma a cui si assiste così spesso anche oggi. E non è certo per ingenuità o ignoranza di ciò che sta avvenendo nel mondo, bensì per una sapienza più profonda, per l’ottimismo che viene dalla confidenza nel Risorto, divenuto compagnia stabile nella vita.
Ma mi mancava ancora un anello, in questa storia di conversione. Passare dall’MGU a un monastero sperduto fra i campi, a coltivare patate e a recitare il salterio per tutta la vita? Matuška Nektarija mi viene in aiuto: a un certo punto, ammiccando, mi dice: “Ha mai sentito parlare di Sergej Averincev? È il mio maestro!”. E tutto si chiarisce, anzi capisco all’improvviso la strana prossimità che ho sentito nei suoi confronti fin da quando l’ho vista. È che abbiamo in comune un amico – cioè un maestro. Perché un maestro, un educatore, è sempre un grande amico.
È difficile spiegare a un lettore occidentale chi sia stato Averincev (1937-2004) per la Russia: un grande studioso di filologia, filosofia, teologia, un uomo estremamente schivo eppure una mente universale, che in epoca sovietica riuscì a far intravvedere alle nuove generazioni “un lembo d’azzurro”, a far respirar loro “una boccata d’aria rubata” della grande cultura cristiana di tutti i tempi, a far incontrare loro la persona vivente di Cristo.
Maestri così non sono mai mancati negli anni bui dell’Unione Sovietica: da questi fili quasi invisibili, fragili eppure tenacissimi, si dipanano storie nascoste che tessono la speranza della Russia. E di quando in quando, emergendo in maniera impensata, danno a questa speranza lo spessore di una certezza.