Non c’è solo la Cina

Bene ha fatto il premier Mario Monti a scegliere l’Estremo Oriente come meta del suo primo viaggio extraeuropeo. Ma si è dimenticato qualcosa. Il commento di ROBI RONZA

Dall’inizio della storia fino alla scoperta dell’America l’Asia fu il maggior interlocutore dell’Europa in genere e dell’Europa mediterranea in particolare; e deve tornare ad esserlo. Perciò bene ha fatto il premier Mario Monti a scegliere l’Estremo Oriente come meta del suo primo viaggio extraeuropeo dopo la sua visita…ad liminanegli Stati Uniti. Meno bene ha fatto tuttavia scegliendosi un itinerario rigorosamente “americano”, peraltro in piena sintonia con la sua cultura e con i club molto “atlantici”, dalla Conferenza Bilderberg alla Trilateral Commission, cui appartiene e nei quali si è sviluppata la sua visione in tema di rapporti internazionali. 

Per motivi diversi ma infine concordanti Corea del Sud, Giappone e Cina sono tre Paesi dei quali gli Stati Uniti sono l’interlocutore occidentale di gran lunga primario e in vari ambiti praticamente esclusivo. Seguono poi a grande distanza la Germania e qua e là la Francia e la Gran Bretagna. Stando così le cose a chi sopraggiunge adesso restano le briciole anche se, tenuto conto delle dimensioni (non solo della Cina ma anche del complesso Giappone/Corea del Sud), può anche trattarsi di briciole molto grosse,  che a noi possono magari sembrare gigantesche ma che tali restano. Sperare poi che investitori industriali cinesi, giapponesi o sudcoreani interessati al mercato dell’Unione europea possano dirigersi a spron battuto verso l’Italia invece che verso Paesi come la Polonia dove il lavoro costa il 30 per cento di meno che nel nostro, come la Germania, dove la pressione fiscale è quasi del 20 per cento inferiore alla nostra o come la Francia dove la burocrazia corre dieci volte più in fretta della nostra, ci sembra davvero un sogno da Alice nel Paese delle Meraviglie. 

La stampa al seguito del premier ha dato disciplinatamente eco trionfale al cortese appello del leader di Pechino alle aziende cinesi di venire ad investire qui da noi. Manchiamo però di notizie sulle relative risposte, anche se non fatichiamo a immaginarcele. In quanto possibile meta di investimenti d’oltremare il fatto di essere parte dell’Unione europea non ci avvantaggia, tutt’altro. Per poter attrarre tali investimenti in misura significativa dobbiamo reggere la concorrenza diretta di altri 26 membri dell’Unione in una quantità di ambiti, dal diritto del lavoro alla qualità della pubblica amministrazione, dal buon funzionamento del sistema giudiziario alla qualità della formazione sia professionale che universitaria e così via. Certo, si deve cominciare, e questo governo ha il merito di aver già fatto una riforma importante come quella delle pensioni. Ciononostante le cose che restano ancora da fare sono così tante che non ci si può certo attendere una crescita degli investimenti stranieri in Italia tanto forte e rapida da contribuire a breve termine a tirarci fuori dai guai. 

Ferma restando l’importanza di ridare alle relazioni con l’Asia il loro giusto peso a fini di reciproco interesse, la strada innanzitutto da percorrere è a nostro avviso tutt’altra: è quella di creare le condizioni perché la nostra industria delle macchine utensili e la nostra industria manifatturiera, alleandosi con capitali locali, vadano a produrre in Asia soprattutto per i mercati interni asiatici. Se questo è vero, e per parte nostra ne siamo convinti, l’itinerario da percorrere è tutt’altro: prende le mosse dall’India, che diversamente dalla Cina sta giocando la carta dello sviluppo del mercato interno, e passa per Paesi come Singapore, il Vietnam, le Filippine e così via. Singapore perché è un  grande centro finanziario e tecnologico di alto livello ma insieme un piccolo Paese con cui si può trattare alla pari ben più facilmente che con Pechino; il Vietnam perché è un Paese di oltre 85 milioni di abitanti che per qualità del lavoro e prossimità del sistema legale è particolarmente adatto come sede di investimenti manifatturieri, oltre ad essere in certo modo l’hinterland industriale di Singapore; le Filippine, 93 milioni di abitanti, per la grande prossimità culturale dovuta alla comune tradizione cattolica e per il nesso, oggi tanto ingente quanto trascurato, che si è fornato in oltre vent’anni di migrazione filippina in Italia, una migrazione (giova ricordarlo) costituita da persone per lo più di istruzione superiore o universitaria; le quali sono di regola ceto medio nella loro patria, anche se qui da noi accettano mansioni tecnicamente semplici pur se spesso impegnative dal punto di vista umano. 

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